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Catania, Teatro Massimo Bellini – La Cenerentola

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Sia caso o fortuna, merito del «sapientissimo Alidoro» o del «nume signore del mondo», che «Tutto sa tutto vede e non lascia | Nell’ambascia perir la bontà», fatto sta che il Teatro Massimo Bellini di Catania, apparentemente uscito dalle secche di una delle crisi più virulente della sua storia, ha concluso il cartellone 2019 con una Cenerentola di Rossini di tutto rispetto, sicuramente ben al di là di aspettative, ormai invero al lumicino. Merito di una bacchetta e di un cast per una volta assemblati secondo criteri di congruità al titolo scelto, ma anche di un allestimento che, facendo di necessità virtù, si è imposto per brio, creatività, fantasia. E l’insieme ha rivelato un autentico lavoro di squadra, indispensabile per la riuscita di un’opera che richiede coesione e senso dell’assieme.

Indispensabile collante si è rivelata la bacchetta di José Miguel Pérez-Sierra, allievo ed erede della lezione di Alberto Zedda, come tale collaudato nella cura delle sonorità, dell’equilibrio fonico, di levigate trasparenze che emergono sin dalla leggerezza di una Sinfonia morbidamente soffusa dai bagliori degli strumentini. Per il direttore madrileno La Cenerentola è esempio perfetto delle strategie del comico rossiniano: e lo sottolinea subito, sin dalla Stretta dell’Introduzione guidata a tambur battente, a ritmo indiavolato, con una velocità che, più avanti, rischierà di mettere a repentaglio la quadratura con il Coro maschile, che pure risulta guidato in maniera sobria e affidabile da Luigi Petrozziello. Qui, ma anche nei successivi concertati, sottopone i solisti a produrre autentiche mitragliate di fonemi impazziti, borborigmi crepitanti d’incontenibili emozioni, declinando un imperscrutabile grammelot che diventa essenza stessa della drammaturgia del Pesarese. E tanto più sbalza gli assieme, seguito da un’orchestra galvanizzata, tanto più emerge la poetica umanità dei personaggi che appartengono all’aspetto serio-sentimentale dell’opera, a cominciare dalla coppia di protagonisti: quasi a isolare chi è costretto a salire sulla giostra della vita, ma al tempo stesso desidera dettare nuove regole, per costruire un’utopistica visione del migliore dei mondi possibili. Governa con destrezza anche i recitativi, humus fertilissima al progredire dell’azione, godibili pezzi di teatro grazie alla scioltezza di Gaetano Costa al cembalo.

Motore dell’azione diventa così Alidoro, al quale Marco Bussi restituisce non solo nobilissima figura scenica ma anche esemplare dignità vocale, segnatamente nella perigliosa Aria del primo atto, da cui prende l’abbrivio il gran Finale del primo atto. Diventa il perno del dramma, cui fanno da esilarante corona le due scatenate sorellastre di Manuela Cucuccio, svettante Clorinda, e Sonia Fortunato, incontenibile Tisbe: che grazie alla bacchetta di Pérez-Sierra nella Stretta del Sestetto sembra quasi che si mettano a ringhiare, tanto risulta loro insopportabile il tramonto dei rispettivi sogni di gloria.

Il duetto dei bassi buffi vede trionfare, al debutto nel ruolo, il Dandini di Vincenzo Taormina, che s’impone per senso della misura: provvisto di sorgiva vis comica, è rossiniano di rango e, per questo, non si adagia su una trascinante presenza scenica, naturalmente capace di creare la necessaria empatia con il pubblico; ma – da autentico ‘basso cantante’, come l’avrebbero definito sul principio dell’Ottocento – preferisce costruire il ruolo su una vocalità rigogliosa, quasi sensuale nella Cavatina di sortita in cui si paragona a un’ape che dal giglio «poi salta alla rosa», ma poi pronta a sgranare sillabati al fulmicotone quando accende la miccia della coloratura. Più corrivo, sotto il profilo scenico, appare il Magnifico di Luca Dall’Amico, che connota il ruolo da basso ‘caricato’ con una serie di tormentoni (inchini e saltelli a ripetizione) forse oggi superati; ma che nondimeno dispone di ragguardevoli mezzi vocali, di bella proiezione e di pronta adesione alla grammatica rossiniana, segnatamente nella gran scena della cantina, dove risulta irresistibile.

La coppia ‘nobile’ vive di segreti palpiti, e forse per questo di alterne fortune. Ramiro è David Alegret, che con un’inossidabile musicalità supplisce alle carenze di uno strumento in miniatura; ma che pure affronta con disinvoltura la grande Aria del secondo atto, in cui tuttavia latita l’aura carismatica. Ed è un vero peccato, perché affianca un’Angelina di pregio, impersonata da Laura Polverelli. Verrebbe da definirlo, il suo, come il trionfo dell’intelligenza – oltre che, rossinianamente, della bontà. Per dar corpo al personaggio le bastano infatti poche pennellate, nel primo atto: la rotondità della Canzone, in cui emergono le potenzialità del registro grave; e la morbidezza di emissione del Duetto, in cui il colpo di fulmine viene tratteggiato con levigate tinte pastello. Quello che non si sospetta è piuttosto un Rondò di ragguardevole impegno, tripudio di fioriture affrontate con spavalda sicurezza e intrepido slancio: degna incoronazione di un personaggio che ascende al soglio regale per imporre la settecentesca, metastasiana virtù del perdono. E tanto soffice appare il «soave incanto» della fortunata ventura, quanto rutilante diventa un «gorgheggiare» che è insperata, fastosa esplosione di gioia.

Contribuisce in maniera determinante alla riuscita dello spettacolo il ‘nuovo allestimento’, firmato in tandem da Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi. Fa riflettere, invero, il fatto che un teatro in evidenti difficoltà economiche, invece di perseguire strade virtuose, come il noleggio o la coproduzione, continui a produrre ‘nuovi allestimenti’, che in realtà tali non possono essere. Ma forse è proprio nello stato di bisogno che si apprezza la creatività degli artisti. Meritano dunque un plauso i due registi lombardi che, avendo a disposizione unicamente pochi arredi (poltrone e divani) presi in ‘prestito’ dal foyer, hanno pensato di avvalersi della «partecipazione straordinaria della città di Catania», che campeggia a tutto schermo nel video di Patrick Gallenti, dalla prima all’ultima nota. Sarebbe facile, a questo punto, osservare che ben altra complessità è stata raggiunta in questo settore da altre, più blasonate firme in ambito internazionale; così come sempre ardua risulta l’interazione con la dimensione scenica, qui aggravata dal fatto che le luci erano ancora interamente da pensare. Ma tant’è: risulta godibile l’idea che il capoluogo etneo faccia da sfondo all’intera vicenda, tra distese di panni stesi al sole – tanto in odore di Gatta Cenerentola di desimoniana memoria – e le volute barocche di Palazzo Biscari; con una puntata finanche allo storico Mercato del pesce, dove le due sorellastre s’industriano di tampinare il «principino» con il suo scudiero, salvo ritrovarli entrambi in sala, dove si dissimulano tra spettatori sinceramente divertiti. È, insomma, una sorta di tour promozionale della città che, forse, sarebbe piaciuto tanto pure a Rossini per la sua garbata, insinuante ironia: perché quel «patrimonio dilapidato» ahimè coincide con i luoghi della cultura catanese, in primis proprio lo stesso Teatro, che fa da luccicante sfondo all’esultanza delle nozze finali. L’immagine del monumento a Bellini di Giulio Monteverde, che troneggia in piazza Stesicoro, figura tra i titoli di coda: con tanto di piccione appollaiato sulla testa, ancora incerto sul da fare…

Teatro Massimo Bellini – Stagione lirica e balletto 2019
LA CENERENTOLA
Dramma giocoso in due atti di Jacopo Ferretti
Musica di Gioachino Rossini

Don Ramiro David Alegret
Dandini Vincenzo Taormina
Don Magnifico Luca Dall’Amico
Clorinda Manuela Cucuccio
Tisbe Sonia Fortunato
Angelina Laura Polverelli
Alidoro Marco Bussi

Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini
Direttore José Miguel Pérez-Sierra
Maestro al cembalo Gaetano Costa
Maestro del coro Luigi Petrozziello
Regia e scene Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi
Video Patrick Gallenti
Costumi Giovanna Giorgianni
Luci Antonio Alario
Nuovo allestimento scenico
Catania, 11 dicembre 2019

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