L’opera è pop. Da otto anni la Fondazione Teatro Grande di Brescia si fa promotrice della Festa dell’Opera, un originale format che ha portato la lirica nelle strade e nelle piazze della città, dall’alba al tramonto, con concerti, flash mob, performance che mettono in dialogo la grande tradizione musicale lirica con il jazz e altre forme d’arte. Si tratta della prima iniziativa di questo tipo, poi fiorita anche in altri contesti (penso al Festival di Macerata o, più recentemente, alla Donizetti Night di Bergamo). L’intuizione originale è vincente: restituire alla lirica quella dimensione nazional popolare che le è propria (Gramsci docet) e liberarla da certi paludamenti che talvolta la affliggono. Dimostrare una volta di più che il teatro lirico è una forma d’arte viva e attuale perché, come ogni forma d’arte che sia autenticamente tale, intercetta temi e dimensioni che sono proprie dell’umano, al di là dell’epoca in cui un melodramma può essere stato concepito. Insomma: Mozart, Verdi, Puccini e tanti altri sono nostri contemporanei. In barba a chi continua a pensare che l’opera sia uno spettacolo datato e buono solo per vecchi rintronati.
Per la sua valenza educativa (sono diversi i progetti dedicati a bambini e ragazzi) la Festa ha ottenuto in passato il prestigioso Premio Filippo Siebaneck nell’ambito dei Premi Franco Abbiati della critica musicale italiana. Il successo di pubblico conferma la validità di un progetto articolato, che ha anche il non trascurabile obiettivo di valorizzare luoghi e spazi del centro storico della Leonessa d’Italia, città ricca sotto il profilo artistico (si pensi che, insieme ad Aosta e Aquileia, Brescia possiede il maggior patrimonio di epoca romana del nord Italia). Tantissimi appassionati e curiosi hanno affollato gli oltre 50 appuntamenti nel calendario di questa ottava edizione, baciata anche da una giornata di sole, svoltasi lo scorso sabato 8 giugno con il tema “Re/Regine. Potere/Passione”. La complessa macchina organizzativa, sotto l’egida del sovrintendente Umberto Angelini e con il solido coordinamento di Giulia Dusatti, ha trovato quest’anno nel segretario artistico Andrea Cigni un riferimento intelligente.
Il tutto ha avuto inizio con un suggestivo concerto alle 5,30 del mattino, intitolato “Arie di luce”, nella cornice del cortile del monastero di san Pietro in Oliveto, sito sul colle Cidneo, vicino al Castello di Brescia. Protagonista, in un viaggio nel repertorio francese, il Bazzini Consort, una vivace realtà musicale bresciana nata lo scorso anno nel nome del grande compositore Antonio Bazzini (1818 – 1897), che fu acclamato violinista, direttore del Conservatorio di Milano e maestro, tra gli altri, di Puccini e Mascagni. Stupisce come il pubblico ami godere di spettacoli musicali in contesti particolari e, soprattutto, in orari inconsueti: l’esperienza del Festival “I suoni delle Dolomiti” insegna. Le stesse riflessioni valgono per l’evento conclusivo della Festa, da mezzanotte in poi nella magica cornice del Capitolium, il tempio fatto costruire da Vespasiano: sulle note della Filarmonica dell’Opera italiana Bruno Bartoletti, sotto l’esperto bacchetta di Valerio Galli, si sono avvicendati quattro solisti in carriera: il soprano Valentina Boi, dalla voce chiara e morbida, il possente baritono Devid Cecconi e il generoso tenore Angelo Villari. Ma la stella più luminosa era quella del mezzosoprano bresciano Annalisa Stroppa, un’autentica fuoriclasse, stretta in affettuoso abbraccio dalla sua città.
Diverse, nel programma della giornata, le versioni ridotte di celebri titoli operistici. Il magnifico Foyer del Teatro Grande, capolavoro del barocchetto lombardo, ha ospitato due repliche di una singolare Turandot, con la regia del giovane Luca Baracchini e il fondamentale supporto al pianoforte di Luca Capoferri. Ottimi gli interpreti: Marika Franchino (Turandot), Alessandro Goldoni (Calaf), Anna Bordignon (Liù), Paolo Ingrasciotta (Ping), Rosolino Cardile (Pong), Antonio Mandrillo (Pang), Zabulon Salvi (Timur), Camilla Lonati (voce bianca). Una speciale versione del Flauto magico per i bambini, con la regia di Stefania Panighini, è stata messa in scena sia l’8 giugno che nei giorni precedenti per gli studenti delle scuole bresciane, riscuotendo un bel successo. Poetica e sentimentale, la Butterfly della compagnia Kinkaleri è una favola non solo per bambini, applaudita in due repliche al teatro santa Chiara (molto bravi il soprano Yanmei Yang e l’attore e regista Marco Mazzoni). Una selezione di Carmen, infine, è andata in scena con il coro lirico Ponchielli di Cremona diretto da Patrizia Bernelich.
Ma la Festa dell’Opera guarda anche alla contemporaneità. Da diversi anni, un progetto, curato dal compositore Mauro Montalbetti, prevede la commissione a giovani compositori di brani d’opera ispirati a capolavori consacrati dalla storia. Quest’anno è toccato a Macbeth di Verdi: alcune delle sue arie sono state riscritte per un organico di voce, pianoforte e clarinetto da Delilah Gutman, Riccardo Panfili e Riccardo Perugini, ben interpretate dal baritono Omar Kamata e dal soprano Stefanna Kybalova; ad accompagnarli, Alessandro Trebeschi (pianoforte, nonché tra i più attivi organizzatori della Festa), Mirco Ghirardini (clarinetto) e la voce recitante di Marco Gazzini. Stante il fatto che l’operazione è lodevole negli intenti e qualitativamente interessante, mi permetto due osservazioni: ha un valore soprattutto culturale (creare un ponte tra passato e presente, stimolare la creatività contemporanea) ma lascia perplessi i melomani più tradizionali (quelli per i quali dopo Puccini c’è il deserto) e anche il pubblico non necessariamente appassionato che incidentalmente incappa in questi concerti. In secondo luogo, l’esecuzione non andrebbe fatta all’aperto, alla mercé degli elementi, ma in un luogo chiuso e raccolto, che consenta di apprezzare la particolarità della scrittura musicale.
C’è poi un’osservazione di portata più generale: è bello passeggiare per la città e poter ascoltare il Brindisi di Traviata o il Valzer di Musetta. Ma sarebbe ancor più bello se l’ascolto fosse introdotto da brevi note (scritte o parlate), che consentano una fruizione più consapevole di queste pagine. Soprattutto se non sono celebri come quelle poc’anzi citate.
Tale riflessione vale ancor più per un appuntamento denominato Gran gala,che si è svolto alle 21 sul palco del Teatro Grande. Il concerto si pone come il più tradizionale nel quadro di una giornata che ha invece come vocazione quella di uscire dai luoghi tradizionali della musica, massimamente dal teatro. Tale gala era infatti nato per far esibire i cantanti impegnati nella produzione che avrebbe inaugurato la stagione lirica quando la Festa, fino allo scorso anno, si svolgeva in settembre. Con il cambio di data, e con il coinvolgimento di giovani cantanti molto volenterosi ma talvolta impacciati, la filosofia del gala ha perso valore, riducendosi a una sorta di saggio di fine anno. Se gala deve essere, almeno ci sia una diva (o un divo) a conferirgli lo smalto che merita.
Tra le tante voci ascoltate, mi piace ricordarne due di soprano, entrambe bresciane. Marta Mari, anzitutto, ultima e prediletta allieva dell’indimenticabile Daniela Dessì, timbro di scuro velluto e squisita pucciniana. E poi la giovane Alessia Pintossi, dalla voce chiara e agile e dalla fascinosa presenza scenica.
Difficile rendere ragione di un programma davvero ricco e stimolante, tra cori verdiani e bande giovanili, virtuosismi barocchi, interventi a sorpresa, opera jukebox e crossover, pranzi musicali e tanto altro. Non è mancato uno stimolante confronto tra giornalisti attivi soprattutto nel web, coordinato da Angelo Foletto, con la partecipazione di Roberta Pedrotti, Luca De Zan e Paolo Locatelli.
A otto anni dalla sua nascita, la Festa dell’Opera può pensare di rinnovarsi restando fedele a se stessa, ossia all’idea di rendere ragione della dimensione popolare del melodramma. Magari estendendosi a più giorni, puntando ancora di più sulla qualità degli interpreti (operistici) coinvolti, pensando di promuovere delle masterclass i cui esiti diventino parte del progetto. Osando di proporre anche qualche titolo non di repertorio o addirittura di quel Novecento che popola il presunto deserto successivo a Puccini (visto il tema di quest’anno, perché non immaginare un Oedipus rex anche in forma semiscenica?).