Da qualche anno a questa parte sempre più teatri italiani hanno preso la buona abitudine di proporre, in cartellone, titoli basati su nuove edizioni critiche o versioni desuete, in un fertile lavoro filologico di riscoperta e valorizzazione dell’eredità operistica. Ben ha fatto, quindi, il Donizetti Opera a mettere in scena, in chiusura di festival, una composizione celebre come Lucrezia Borgia nell’edizione critica a cura di Roger Parker e Rosie Ward in collaborazione con Casa Ricordi e con il contributo del Comune di Bergamo e della Fondazione Teatro Donizetti, optando per la variante del Théâtre Italien di Parigi del 31 ottobre 1840 (partendo comunque da quella solitamente eseguita, che debuttò al Teatro alla Scala il 26 dicembre 1833, in un riuscito ibrido tra le due). Opera seria in un prologo e due atti su libretto di Felice Romani dall’omonima tragedia di Victor Hugo, in essa Gaetano Donizetti dipinge una protagonista dall’accentuato aspetto larmoyant e patetico, una madre inquieta e preoccupata per il destino del figlio segreto Gennaro, per il quale nutre un sentimento casto e ostinato: una lettura, quindi, lontana da quella a tinte fosche della tradizione, che vede nella duchessa di Ferrara rampolla di papa Alessandro VI una assassina incestuosa e peccaminosa (sebbene nel finale si macchierà dell’involontario omicidio dell’amato discendente).
Nella raccolta cornice del Teatro Sociale di Bergamo va in scena un nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Teatri di Reggio Emilia, la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Ravenna Manifestazioni e la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste. Il giovane regista Andrea Bernard concepisce uno spettacolo potentemente umano e simbolico, ricco di spunti interessanti, concentrato principalmente su di una sfaccettatura del personaggio Lucrezia, il suo essere madre. Sin dall’ouverture compaiono, difatti, oggetti o gesti allusivi alla sua vocazione materna: la donna regge tra le braccia un bimbo in fasce e lo allatta al seno; il latte materno fungerà da antidoto contro il veleno assunto da Gennaro; nel secondo atto compariranno sul palcoscenico cinque candide culle in legno bianco. E, nello straziante finale, mentre intona lo struggente “Era desso il figlio mio”, la protagonista si ferirà ripetutamente con un pugnale proprio al petto, fonte di nutrimento e mezzo di contatto tra mamma e neonato nei primissimi mesi di vita, per sottolineare (con tanto di realistici fiotti di sangue che macchiano la sua immacolata sottoveste) una maternità oramai estinta, come estinto è il figlio Gennaro. Bernard immagina un Rinascimento tetro e perverso, dove domina un maschilismo violento e corrotto, in cui l’unica donna, la protagonista, è destinata a soccombere alla brutalità degli uomini, dediti a sfogare i propri istinti sessuali più animaleschi per combattere la noia e la frustrazione che li attanagliano. A tale clima opprimente concorrono anche le coreografie istintive di Marta Negrini e, soprattutto, due presenze pressoché costanti, un uomo seminudo imbrattato di sangue, allusivo al destino di morte che aleggia nella vicenda, e la figura di un pontefice in lussuosi paramenti sacri, chiaro rimando al padre di Donna Lucrezia e all’ingombrante cognome che lei deve portare sulle proprie spalle, come se fosse un marchio di infamia. Questa idea di una Ferrara sterile e oscura è suggerita anche dai semplici, appropriati costumi di Elena Beccaro, giocati sulle cromie del bianco, del nero e del grigio (uniche macchie di colore, i due abiti gialli della Borgia), dalle luci asettiche e fredde di Marco Alba e dalle scene di Alberto Beltrame: una landa desolata e buia, sulla quale incombe dall’alto una grande parete di forma rettangolare, mostrante su di un lato un soffitto dorato a cassettoni, sull’altro la scabra superficie del palazzo dei duchi di Ferrara sulla quale campeggia la scritta “BORGIA”. Nell’economia di una visione di forte impatto estetico, in un viaggio dall’Inferno del Prologo al Paradiso della festa in casa Negroni, Andrea Bernard restituisce allo spettatore immagini poetiche, di intensa icasticità, per esempio durante il finale, immerso in una luce accecante, dove la madre disperata accanto al cadavere del figlio richiama alla mente l’iconografia del Vesperbild. Ben individualizzati sono, poi, i singoli personaggi e le ambiguità dei rapporti tra loro.
Alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini troviamo Riccardo Frizza, direttore musicale del Festival Donizetti. Con gesto energico e puntuale e tecnica solida, il maestro bresciano propende per una lettura dall’agogica perlopiù serrata, dal passo teatrale spedito, coesa e unitaria, attenta a sostenere e ad agevolare i solisti e variegata nelle dinamiche e nelle atmosfere, dosando le pagine pervase di soffuso lirismo e quelle maggiormente corrusche. La compagine orchestrale risponde con sicurezza alle intenzioni di Frizza, con sonorità avvolgenti e crepitanti.
Nei panni di Donna Lucrezia Borgia debutta Carmela Remigio, artista in residenza dell’edizione 2019 della kermesse bergamasca, nota per aver già cantato molteplici ruoli donizettiani, quali Maria Stuarda e la rivale Elisabetta, Anna Bolena e Giovanna Seymour, Elisabetta nel Roberto Devereux e Amelia ne Il castello di Kenilworth. Vocalità nel complesso voluminosa e omogenea, di timbro di non particolare appeal, che ha i suoi punti di forza in un registro acuto lucente e centrato e in medi di tinta ambrata, il soprano abruzzese giganteggia in particolare per la dizione graffiante e per il fraseggio al calor bianco, dovizioso di inflessioni e di accenti. L’interprete è viscerale, accorata, dall’innegabile temperamento e dalla presenza scenica magnetica, una vera leonessa inquieta e caparbia, mossa da un pervicace e duraturo amore materno che la porterà alla rovina. In una prestazione maiuscola, certo non inficiata da sparute note gravi risuonate poco corpose e opache, si segnalano anche notevoli messe di voce, una buona tenuta dei fiati e i fluidi virtuosismi della cabaletta “Si voli il primo a cogliere, bacio d’un sordo amore”.
Accanto a lei, brilla il Gennaro del ventiquattrenne tenore spagnolo Xabier Anduaga, voce squillante e in maschera, screziata di seducenti riflessi bronzei, di buon tonnellaggio e che corre con facilità nella sala del Sociale, salendo con naturalezza ad acuti sonori. L’artista riesce, all’occorrenza, ad alleggerire l’emissione in suoni più eterei, come emerso per esempio nell’aria “Anch’io provai le tenere smanie d’un puro amore”, accolta da scroscianti applausi a scena aperta.
Lo sbarazzino Maffio Orsini del mezzosoprano franco-armeno Varduhi Abrahamyan si distingue per una vocalità tornita e vellutata, pastosa nei medi e nei gravi e luminosa nelle note alte; vivace la resa della ballata “Il segreto per esser felici”.
Il basso-baritono croato Marko Mimica delinea con convinzione un Don Alfonso protervo e sadico, fisicamente prestante, in possesso di uno strumento vocale tonante e potente, scultoreo nel porgere la parola, in alcuni passaggi acerbo nell’emissione; efficace la cavatina “Vieni: la mia vendetta”. Vocalmente sfolgorante e scenicamente equivoco il Rustighello di Edoardo Milletti; composto e autorevole il Gubetta di Rocco Cavalluzzi; autoritario l’Astolfo di Federico Benetti. Ben assortiti e caratterizzati i quattro amici di Gennaro e Maffio: Jeppo Liverotto (Manuel Pierattelli), Don Apostolo Gazella (Alex Martini), Ascanio Petrucci (Roberto Maietta) e Oloferno Vitellozzo (Daniele Lettieri). Incisivi e precisi gli interventi del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, guidato da Corrado Casati.
Al termine, festanti ovazioni per i protagonisti da parte del folto pubblico che assiepava il teatro in ogni suo ordine. Arrivederci al Donizetti Opera 2020 che, tra le altre proposte, prevede Marino Faliero e La fille du régiment per il ritorno definitivo sulle tavole del restaurato Teatro Donizetti.
Donizetti Opera 2019
LUCREZIA BORGIA
Opera seria in un prologo e due atti di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Edizione critica a cura di Roger Parker e Rosie Ward © Casa Ricordi, Milano
con la collaborazione e il contributo del Comune di Bergamo e della Fondazione Teatro Donizetti
Don Alfonso Marko Mimica
Donna Lucrezia Borgia Carmela Remigio
Gennaro Xabier Anduaga
Maffio Orsini Varduhi Abrahamyan
Jeppo Liverotto Manuel Pierattelli
Don Apostolo Gazella Alex Martini
Ascanio Petrucci Roberto Maietta
Oloferno Vitellozzo Daniele Lettieri
Gubetta Rocco Cavalluzzi
Rustighello Edoardo Milletti
Astolfo Federico Benetti
Un usciere Claudio Corradi
Un coppiere Alessandro Yague
La principessa Negroni Francesca Verga
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Banda di palcoscenico del Conservatorio Gaetano Donizetti di Bergamo
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Corrado Casati
Regia Andrea Bernard
Scene Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Movimenti coreografici Marta Negrini
Lighting design Marco Alba
Assistente alla regia Tecla Gucci
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo
in coproduzione con la Fondazione Teatri di Reggio Emilia,
la Fondazione Teatri di Piacenza, la Fondazione Ravenna Manifestazioni
e la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Bergamo, Teatro Sociale, 24 novembre 2019