Si fa presto a dire farsa. Quando ci si imbatte in titoli ascrivibili a questo genere musicale, in voga fra Sette-Ottocento soprattutto negli ambienti teatrali veneziani e napoletani, si pensa istintivamente a un’opera buffa. Ma non è sempre così. Nemmeno nel caso di Rossini, che di farse “per musica” ne scrive cinque per il San Moisé di Venezia. Fra queste figura L’inganno felice, proposta per l’apertura delle Settimane Musicali 2018 al Teatro Olimpico di Vicenza.
Si tratta di lavoro composto nel 1812 su libretto di Giuseppe Maria Foppa, nel quale il ventenne Rossini sprizza già lampi di genio sottraendosi almeno in parte all’impressione di “farcitura”, cioè alla funzione di riempitivo tipica di tali operine. Ambientata in una miniera, la vicenda è quella di una commedia larmoyant a lieto fine, dove la sfortunata protagonista viene sottratta in extremis alla malvagità di un potente. Isabella, accusata ingiustamente di adulterio, ripudiata e creduta morta, viene ritrovata dieci anni dopo dal marito, il duca Bertrando, in una comunità di minatori, dove è stata accolta da Tarabotto. Il responsabile della calunnia, Ormondo, infido consigliere del duca, viene smascherato e la coppia si ricongiunge. I risvolti sentimentali e patetici del caso sono temperati da situazioni e personaggi comici che orientano l’intreccio verso il genere semiserio.
Spesso succede che negli allestimenti teatrali l’equilibrio fra patetico e comico venga spostato a netto favore del primo, marcando decisamente l’aspetto drammatico. Penso al vecchio spettacolo realizzato da Graham Vick per il ROF e successivamente ripreso dalla Fenice, dove molte soluzioni registiche e le scene di Richard Hudson, risolte naturalisticamente in un arido campo di lavoro, sembravano perfette per Da una casa di morti di Janáček. E penso anche al più recente allestimento veneziano di Bepi Morassi ambientato ai tempi della prima guerra mondiale: una cornice visiva anche in quel caso eccessivamente cupa, sovradimensionata rispetto all’esilità della trama e alla levità della musica.
Nell’edizione vicentina le diverse componenti dell’opera si fondono invece con sostanziale equilibrio. La regia di Alberto Triola procede su un doppio binario narrativo: da un lato una lettura della vicenda di impronta psicanalitica, dall’altro uno svolgimento dell’azione che rientra nell’alveo rassicurante della tradizione. Di primo acchito, applicare la psicologia del profondo a una farsa potrebbe sembrare una forzatura: nell’Inganno felice non ci sono psicologie, ma caratteri, non c’è realismo ma una concezione narrativa convenzionale. Tuttavia a rendere plausibile questa chiave interpretativa è l’aver individuato nel libretto di Foppa le tappe classiche di una narrazione fiabesca. E le favole, si sa, affondano le radici nell’antichità, si confondono con i miti e le leggende, di cui sono una continuazione. La psicanalisi se ne interessa da sempre perché in quelle narrazioni non c’è solo l’infanzia dell’umanità, ci sono anche le sue paure, le sue ossessioni, i suoi desideri oscuri. Ecco allora che durante la sinfonia vediamo Isabella accomodarsi sul lettino dello psicanalista/Tarabotto, colui che la salva dal “naufragio” e quindi la aiuterà a elaborare il trauma portandola alla guarigione attraverso un percorso di crescita. Il problema che la protagonista deve risolvere è il conflitto con il mondo maschile (nell’antefatto che domina l’azione è stata accusata ingiustamente di tradimento, scacciata dal marito e condannata a morte). Quando lo spettacolo inizia, la vicenda si svolge in un contesto di tradizione, con tutti i risvolti ironici, buffi e patetici previsti. Nella cornice dell’Olimpico pochi elementi scenici (ideati da Giuseppe Cosaro, che firma anche i costumi con Sara Marcucci) evocano l’ambientazione in una salina: il relitto di una barca corrosa, alcuni sacchi, due piani inclinati, più una botola che allude allo spazio dell’inconscio. A ricordare il contesto psicanalitico intervengono ogni tanto anche gli alter ego di Isabella e del duca suo marito: due mimi (la brava danzatrice Clelia Fumanelli e Libero Stelluti) che materializzano in scena angosce e desideri, si prendono e si lasciano per poi alla fine ricongiungersi definitivamente. Tutto scorre senza forzature nello spettacolo di Triola: la recitazione è accurata, fluida anche sul versante comico, e il punto di vista psicanalitico diventa un sottotesto che dà profondità a una trama esile senza appesantirla e senza sacrificare la chiarezza dell’intreccio.
Anche l’esecuzione, grazie alla concertazione accurata di Giovanni Battista Rigon, si contraddistingue per l’equilibrio con cui il senso del dramma si alterna al tono lirico-sentimentale e a momenti ora di pungente ironia, ora scopertamente farseschi (il duetto Tarabotto-Batone). Gli improvvisi cambiamenti di atmosfera sono legati nella direzione di Rigon da un un senso della narrazione fluido e unitario. È una lettura slegata sia da marcate premonizioni romantiche sia dalle convenzioni classiciste, quelle stesse che avevano valso al giovane Rossini l’appellativo di “tedeschino”, L’esito è una conduzione improntata a libertà e leggerezza, capace di guidare con precisione l’orchestra anche quando trapunta il canto di fulminei e sempre suggestivi interventi solisti. Potendo contare sulla duttilità e l’affiatamento dell’Orchestra di Padova e del Veneto, Rigon evidenzia infatti l’individualità dei timbri strumentali, concepiti come tanti “attori” con una personalità diversa e una diversa parola da dire: gli strumenti concorrono alla pari con le voci a determinare ora la tensione drammatica, ora l’effetto comico, o sorprendente. Il direttore fa capire insomma che nel trattamento dell’orchestra il giovane Rossini è già un modello di chiarezza, economia di mezzi e abile scelta di colore strumentale.
I cantanti protagonisti dell’edizione vicentina, per lo più giovanissimi, dimostrano nel complesso di avere le carte in regola per affrontare brillantemente il canto rossiniano. Spiccano in particolare le voci gravi maschili. Una conferma positiva è rappresentata dalla prova del baritono Daniele Caputo, che canta per il terzo anno consecutivo alle Settimane musicali, mettendo in luce ancora una volta una voce dal timbro piacevole, un’emissione omogenea e una linea di canto accurata. Il suo Tarabotto è un personaggio a tutto tondo grazie anche all’accento ben calibrato a al fraseggio vario e approfondito. Un merito, questo, che condivide con tutti gli altri interpreti della produzione grazie all’analitico lavoro di concertazione svolto da Rigon. Una sorpresa è invece la presenza di Sergio Foresti nei panni di Batone. Si tratta di un ottimo basso-baritono che ha fatto carriera sui palcoscenici tedeschi e austriaci, mentre in Italia ha cantato pochissimo, a conferma dell’insipienza dei nostri teatri e dei loro responsabili artistici nel valorizzare i talenti. Foresti sfoggia una vocalità estesa, duttile, timbrata in tutta la gamma, fraseggia e accenta con nobiltà, e soprattutto ha delle agilità eccellenti. In altre parole, dimostra di possedere la statura vocale e virtuosistica adeguata per sostenere una parte insidiosa come quella di Batone, scritta da Rossini per un cantante leggendario come Filippo Galli. Nel ruolo del malvagio, il basso-baritono Lorenzo Grante canta con bella timbratura e correttezza, accento incisivo e fraseggio vario, anche se non ha modo di emergere più di tanto: fra tutti i personaggi quello di Ormondo è infatti il più convenzionale e, non a caso, Rossini gli riserva l’aria meno impegnativa e caratterizzata di tutta l’opera.
Nel ruolo del Duca Bertrando figura il tenore congolese Patrick Kabongo, senz’altro migliorato rispetto alla prova offerta un paio d’anni fa nella Scuola de’ gelosi di Salieri, a Verona, sotto la direzione dello stesso Rigon. La voce risulta morbida e di bel colore nel registro medio-basso, la dizione chiara, lo stile ineccepibile sia nel canto sentimentale che nelle sporadiche accensioni eroiche; i passaggi di coloratura previsti sono inoltre risolti con fluidità. Resta solo da corroborare l’emissione negli acuti, dove i suoni tendono ancora a sbiancare.
La prima donna è Eleonora Bellocci, che coglie in pieno il carattere prevalentemente lirico-patetico di Isabella: canta con un bel legato e sostanziale pulizia vocale, tolta qualche emissione un po’ asprigna in alto, è espressiva ed esibisce un accento larmoyant capace di cogliere certi languori pre-belliniani presenti nella scrittura del giovane Rossini.
Successo entusiastico, repliche fino al 17 giugno
Settimane Musicali al Teatro Olimpico 2018
L’INGANNO FELICE
Farsa per musica in un atto
Libretto di Giuseppe Maria Foppa
Musica di Gioachino Rossini
Bertrando, duca Patrick Kabongo
Isabella, sua moglie Eleonora Bellocci
Ormondo, intimo del duca Lorenzo Grante
Batone, confidente d’Ormondo Sergio Foresti
Tarabotto, capo de’ minatori Daniele Caputo
Alter ego di Isabella Clelia Fumanelli
Anima di Bertrando Libero Stelluti
Minatore delle saline Gianluca Bozzale
Orchestra di Padova e del Veneto
Direttore e maestro al cembalo Giovanni Battista Rigon
Regia Alberto Triola
Scene Giuseppe Cosaro
Costumi Giuseppe Cosaro, Sara Marcucci
Lighting designer Giuliano Almerighi
Trucco e parrucco Studio Vanity 2.0
Coreografie Clelia Fumanelli
Vicenza, 3 giugno 2018