Ogni generazione riscrive il passato scegliendo le interpretazioni che si adattano ai propri bisogni. Anche la storia della musica rinnova a ogni epoca i suoi punti di vista, scopre nuove fonti o rilegge le antiche, riesuma o rimuove autori e repertori. Il passaggio al XIX secolo segna per esempio la rimozione pressoché totale dell’immenso patrimonio storico e culturale della Serenissima decretando, in campo musicale, l’oblio di autori come Vivaldi, Galuppi, i Marcello, Caldara, Albinoni, Legrenzi, Lotti. Grandi compositori di melodrammi seri e buffi, sinfonie, concerti, musica sacra e da camera del tutto ignorati da un secolo come l’Ottocento che da noi, per esempio, non ha prodotto quasi nulla in campo strumentale e sinfonico. Dal dimenticatoio, nel secondo dopoguerra, è riemerso solo Vivaldi che a tutt’oggi, per il pubblico, è l’unico autore noto della scuola veneziana. La riscoperta degli altri esponenti, soprattutto per quanto riguarda il teatro musicale, è iniziata invece da pochissime stagioni e sta riservando, com’era prevedibile, non poche sorprese.
Di recente, la Fenice ha iniziato un recupero delle opere di Antonio Caldara (la sorprendente Dafne) e Tomaso Albinoni (l’interessante Zenobia, cui seguiranno il prossimo anno La Statira e Pimpinone). In questa stessa direzione si sta muovendo meritoriamente anche Vicenza in Lirica che ha riesumato il Polidoro di Antonio Lotti (1667-1740), evento di punta del Festival 2018 proposto al Teatro Olimpico con entusiastico successo di pubblico. Eppure, basta aprire un qualsiasi dizionario della musica per trovare puntualmente giudizi riduttivi sulla produzione operistica di Lotti, il quale avrebbe invece trovato nobiltà di ispirazione e dato il meglio di sé nel repertorio sacro. La stessa vulgata vale per i titoli teatrali di Caldara, Albinoni e altri autori della scuola veneta. Ma che si tratti di pregiudizi e di considerazioni musicologiche spesso fatte in astratto è abbastanza evidente, considerato che siamo di fronte a opere che nessuno ha avuto modo di valutare sulla base dell’indispensabile verifica esecutiva e teatrale. Per fortuna, la storia sta iniziando a rendere giustizia anche a Lotti, compositore impegnato a Venezia nell’attività di operista dal 1692 al 1717: un arco di tempo in cui scrive poco meno di una ventina di lavori, dopo di che sarà chiamato dall’elettore di Sassonia alla corte di Dresda. Qui rimane due anni componendo tre opere, e nel 1719 ritornerà nella Serenissima per dedicarsi esclusivamente alla composizione di musica sacra e da camera.
Tragedia in musica in cinque atti su libretto di Agostino Piovene, Polidoro va in scena al Teatro Grimani di Venezia nel Carnevale del 1714 con un cast stellare. Nei panni del protagonista figura il castrato Francesco Bernardi detto il “Senesino”, affiancato fra gli altri da Diamante Maria Scarabelli detta la “Diamantina” e dai bassi Giuseppe Maria Boschi e Giovanni Battista Cavana. Il raffinato libretto ha un’impronta aulica e classicheggiante, e guarda più al teatro tardorinascimentale che alle istanze di “riforma” del teatro d’opera di cui Piovene si fa carico in altri lavori. La vicenda non è esattamente lineare e procede tra scambi di persona e agnizioni, trame malvagie e trionfo finale dell’amicizia e della virtù. Da parte sua, la musica di Lotti è di squisita fattura, elegante e denota grande naturalezza espressiva. L’elemento portante, va da sé, è la struttura dell’aria tripartita con da capo: emerge la tendenza al melodismo strofico e la linea vocale rivela a tratti ascendenze secentesche; la scrittura musicale aderisce quindi con precisione e morbidezza ai versi, ricorrendo a figurazioni melismatiche che tendono a caricare l’espressione verbale. Si aggiungano il magistero del contrappunto, l’originalità nel trattamento della struttura armonica, oltre a qualche contaminazione con elementi stilistici della scuola napoletana. L’esito è un’opera di grande interesse e indubbio fascino, a cui si potrà addebitare una presunta debolezza drammaturgica solo utilizzando criteri esegetici propri del melodramma ottocentesco o del teatro del Novecento. Ma dovrebbe essere ormai chiaro che nel Settecento non esiste l’idea di una drammaturgia coerente e unitaria: l’effetto teatrale procede per bagliori intuitivi, aria per aria, grazie a una accentuazione della parola e del virtuosismo vocale. In Lotti, poi, l’azione si sviluppa anche attraverso i magnifici recitativi, che forse rappresentano l’elemento più sorprendente di Polidoro. Dopo l’ascolto, insomma, si capisce perché non solo allievi come Galuppi, Marcello (Alessandro) e Zelenka, ma anche lo stesso Vivaldi e poi Bach e Händel abbiano attinto alla produzione di un compositore ben noto a livello europeo come Lotti.
La prima esecuzione in tempi moderni di Polidoro è affidata alla direzione di Francesco Erle, che con Franco Rossi ha curato anche l’edizione critica del manoscritto dell’opera conservato a San Pietro a Majella. In primo luogo, va dato atto al maestro vicentino di aver risolto il problema posto dall’assenza della cifratura del continuo, ricorrendo ad armonizzazioni e a un utilizzo di strumenti (sorprendente quello del fagotto) che approdano a esiti convincenti e in armonia con gli stilemi tipici della scrittura di Lotti. Alla guida dell’Opera Barocca Vicenza in Lirica, Erle aderisce con piena consapevolezza alle prassi esecutive d’epoca, ottenendo una adeguata varietà di coloriti, contrasti espressivi, e imprimendo vitalità drammatica al fraseggio, pur senza ricorrere ai tempi iperveloci e nervosi oggi di moda. La concertazione vocale è accurata e i giovani interpreti che formano l’ottimo cast non sono mai messi in difficoltà: tutti cantano con morbidezza, espressione e proprietà stilistica, a partire dai recitativi dove si intuisce un lavoro di preparazione analitico.
La parte di Polidoro è sostenuta da Federico Fiorio, sopranista appena ventunenne ma dalla voce già ben educata, dal timbro chiaro e delicato, molto estesa e facile in alto (in una variazione tocca il do sopracuto). Espressivo nei momenti patetici, nelle arie di furore Fiorio esibisce agilità precise e nitide, a cui potrà dare col tempo maggior mordente. Accanto a lui, si apprezzano due contraltisti. Il primo, Danilo Pastore, tratteggia il personaggio di Deifilo con una vocalità elegante e morbida nel canto di grazia, avvolta a tratti da un velo di patetismo ma capace anche di un fraseggio intenso e drammatico nell’arioso del quinto atto. L’altro, Luca Parolin, esibisce un timbro più corposo al centro che negli affondi nei gravi, riuscendo comunque a dare forza e carattere al ruolo di Pirro grazie alla coloratura efficace e al fraseggio incisivo.
Notevoli le prestazioni dei due bassi. Davide Giangregorio, impegnato nei panni del tiranno Polinestore, fa leva non solo su una voce di suggestivo color scuro e solida nella fonazione, ma anche su una forza espressiva e un’immedesimazione attoriale che si esprimono compiutamente nell’aria che chiude il terzo atto. Eccellente pure la prova di Patrizio La Placa, che canta con bel timbro brunito, emissione sicura in tutta l’estensione, fraseggio sfumato e nobile: il suo Darete risulta di fatto ineccepibile. Quanto alle due voci femminili, Anna Bessi è una Iliona gradevole e corretta vocalmente, intensa nell’espressione, efficace soprattutto nei recitativi, mentre Maria Elena Pepi, con un timbro portato spontaneamente all’espressione patetica, delinea una Andromaca credibile sotto ogni profilo.
Il regista dello spettacolo, Cesare Scarton, parte dal presupposto che il Teatro Olimpico è una entità autosufficiente, un monumento che non può essere toccato, e sceglie di non contaminare la frons scenae dello Scamozzi con altri interventi scenografici. Tutto è affidato alla recitazione dei cantanti, a una gestualità moderna e dinamica, spogliata di ogni aulicità, che intende restituire le passioni intense e i conflitti vissuti dai personaggi. Fondamentale il contributo dei bellissimi costumi di Giampaolo Tirelli, ispirati ai costumi teatrali del primo Settecento riprodotti nelle fonti iconografiche d’epoca, delle parrucche “storiche” di Alessio Aldini e del trucco di Riccardo De Agostini. Efficaci le luci a cura di Andrea Grussu.
Per la cronaca, la serata si è aperta con un ricordo di Claudio Scimone: un applauso sentito e prolungato del pubblico ha reso omaggio al musicista che più di ogni altro in Italia ha dato impulso alla riscoperta di Vivaldi e degli autori della scuola veneziana.
Teatro Olimpico – Vicenza in Lirica 2018
POLIDORO
Tragedia da rappresentarsi in musica in cinque atti
Libretto di Agostino Piovene
Musica di Antonio Lotti
Edizione a cura di Francesco Erle e Franco Rossi
Prima rappresentazione in tempi moderni
Polinestore Davide Giangregorio
Iliona Anna Bessi
Polidoro Federico Fiorio
Deifilo Danilo Pastore
Andromaca Maria Elena Pepi
Pirro Luca Parolin
Darete Patrizio La Placa
Orchestra Barocca Vicenza in Lirica
Direttore Francesco Erle
Regia Cesare Scarton
Costumi Giampaolo Tirelli
Trucco Riccardo De Agostini
Parrucche Alessio Aldini
Light designer Andrea Grussu
Vicenza, 6 settembre 2018