Quando la programmazione teatrale progetta una rappresentazione dell’Otello verdiano l’attesa convogliata su titolo, esecutori, pregi e difetti dello spettacolo ricalca l’esaltazione che accompagnò la prima rappresentazione assoluta al Teatro alla Scala il 5 febbraio 1887, occasione in cui il mondo intero si aspettava, dopo anni incerti, una definitiva risposta italiana all’ascesa incontenibile di Wagner e dei suoi epigoni. Da quel trionfo, colmo di ammirazione e devozione per uno dei pilastri della neonata patria, la partitura ha ereditato, nei decenni successivi, una sorta di aura mistica legata alle innovazioni del linguaggio musicale e, soprattutto, alle esigenze vocali, con particolare riguardo al registro tenorile del protagonista, vero e proprio ruolo monstre e feticcio per generazioni di cantanti.
Con la medesima aspettativa il pubblico gremisce il Teatro Filarmonico di Verona per la vera e propria inaugurazione della stagione lirica 2018, dopo la ripresa della Vedova allegra in periodo natalizio. E, complessivamente, si assiste a una recita abbastanza riuscita. Una sola riserva può essere estesa agli artisti titolari dei ruoli principali maschili: la parziale adesione alle esigenze drammaturgiche di una vicenda che racchiude una gamma praticamente completa di sentimenti umani. In questo senso si muove la prova di Vladimir Stoyanov. La solidità del baritono bulgaro è fuori discussione, come lo sono l’emissione morbida (salvo qualche asperità negli estremi acuti), la dizione curata e la musicalità innata. A questa serie di assi vincenti manca tuttavia una varietà d’accenti che risulta indispensabile a delineare la perversione morale di Jago. Il vilain perde parte dell’insinuante malignità necessaria a renderne del tutto credibili i misfatti e l’odio. D’altro canto, l’apparente distacco con cui Stoyanov approccia il ruolo torna utile alla cinica indifferenza manifestata dall’antagonista durante le abbiette macchinazioni e il progressivo abbrutimento del protagonista.
Quest’ultimo è affidato al lituano Kristian Benedikt che frequenta Otello ormai da vari anni. La confidenza con il moro è evidente e le buone intenzioni non mancano. Sarebbero auspicabili un maggiore approfondimento delle sfumature psicologiche e soprattutto un’attenta cura della dizione. L’artista sfrutta anche qualche limite di timbro ed emissione a proprio favore, riuscendo a costruire un personaggio nel complesso credibile. Controlla con sufficiente rigore certi slanci veristi, da sempre proiettati sulla scrittura verdiana, e con il procedere della serata si impegna a umanizzare Otello mediante un fraseggio più partecipe, nonostante talune forzature.
Rispetto ad altre occasioni (penso, in particolare, alle esibizioni areniane) Monica Zanettin appare qui più sorvegliata nei panni di Desdemona. La evidenti intenzioni interpretative e il particolare colore dei centri bruniti, oltre a mascherare alcuni limiti d’omogeneità, soprattutto in zona acuta, conferiscono alla giovane sposa una caratterizzazione che supera la consueta visione angelicata per dare concretezza e tangibilità alle emozioni contrastanti. Le scene iniziali del quarto atto, specie l’Ave Maria, beneficiano dell’accorata mestizia, perfettamente in linea con le screziature malinconiche di un timbro rotondo e dolente.
Nel resto del cast si distinguono Mert Süngü, Cassio cristallino e credibile, Romano Dal Zovo, efficace Lodovico, Alessia Nadin, Emilia partecipe e ben caratterizzata. A completare la compagnia vi sono Francesco Pittari, Roderigo, Nicolò Ceriani, Montano, e Giovanni Bellavia, Un araldo.
Il debutto di Antonino Fogliani alla direzione della partitura verdiana arriva dopo molti anni di frequentazione assidua del repertorio romantico. Vi è un’impronta sinfonica che pervade l’intera lettura ed evidenzia, con precise intenzioni drammatiche, l’accrescere della tensione narrativa. La concertazione si sofferma sui nodi chiave della vicenda e li scruta con profondo interesse, rendendoli forieri del messaggio veicolato dal testo di Boito. Le tinte lumeggiate si stagliano sui timbri arroventati, in un continuo susseguirsi di scelte musicali operate con l’intenzione di rendere manifeste le sensazioni culminanti nello scioglimento finale. Va rilevato qualche scollamento tra buca e palco, specie nella scena iniziale durante la quale il Coro della fondazione, preparato da Vito Lombardi, risulta debole e quasi non si sente, salvo poi riassestarsi durante la serata. La risposta dell’Orchestra, in buona forma, riesce convincente per organicità e coesione.
La messinscena, curata dal team guidato da Francesco Micheli, regia, affiancato da Edoardo Sanchi, scene, e Silvia Aymonino, costumi, è una coproduzione con il Teatro La Fenice in cui ha debuttato nella stagione 2012-13, in occasione delle celebrazioni del bicentenario dalla nascita di Verdi. La bellezza delle immagini evocanti rinascimentali mappe celesti, con le costellazioni visibilmente collegate alle peculiari caratteristiche dei personaggi della tragedia, cozza con alcuni interventi registici di dubbio gusto. Come in molti spettacoli firmati da Micheli (la ripresa veronese è curata da Giorgia Guerra), è presente una grande struttura cubica, in movimento al centro della scena, ideata per contenere non solo la camera nuziale ma anche un salotto all’orientale, uno spazio dedicato al culto e una camerata militare. Al colpo d’occhio fascinoso, illuminato ad hoc dalle luci ideate da Fabio Barettin, si contrappongono simbolismi, quali i mimi, ipotetiche emanazioni del male e del disagio psicologico, l’ondeggiare, operato dai coristi, dei modellini di imbarcazione durante la tempesta iniziale che appesantiscono inutilmente la narrazione. Jago è il deus ex machina che decide a proprio piacimento come muovere le pedine del cruento gioco al massacro. La messinscena sottolinea la sua desolante solitudine e l’abiezione di un anima votata alla distruzione del diverso e inaccettabile. Il dolore, la fragilità e il candore morale di Desdemona trovano, al pari, la giusta collocazione nell’isolamento quasi ascetico del personaggio, in particolare durante il concertato del finale terzo. Alla definizione del protagonista avrebbe giovato qualche maggiore approfondimento degli sviluppi mentali, sociali ed emotivi indirizzati al tragico epilogo. Discutibile l’idea conclusiva che vede la donna reincarnarsi, perdonare Otello e andarsene con lui.
Per il pubblico, si direbbe un’inaugurazione ben realizzata e salutata con festosi consensi.
Teatro Filarmonico – Stagione Lirica 2017-2018
OTELLO
Dramma lirico in quattro atti
Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Otello Kristian Benedikt
Jago Vladimir Stoyanov
Cassio Mert Süngü
Roderigo Francesco Pittari
Lodovico Romano Dal Zovo
Montano Nicolò Ceriani
Un araldo Giovanni Bellavia
Desdemona Monica Zanettin
Emilia Alessia Nadin
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Antonino Fogliani
Maestro del Coro Vito Lombardi
Coro di Voci bianche A.LI.VE. diretto da Paolo Facincani
Regia Francesco Micheli ripresa da Giorgia Guerra
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Lighting designer Fabio Barettin
Allestimento della Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione con la Fondazione Arena di Verona
Verona, 4 febbraio 2018