La ripresa di Turandot nell’allestimento di Franco Zeffirelli, in scena fino al 26 luglio, rappresenta un tuffo nella tradizione areniana più tipica. Per determinate caratteristiche insite nell’impianto drammaturgico, l’ultimo e incompiuto capolavoro di Puccini è sicuramente un’opera che si presta a traduzioni sceniche monumentali e fastose. Nondimeno, si tratta di una partitura stratificata, ricca di molteplici possibilità simboliche ed espressive, tipico esempio di un teatro musicale novecentesco innovativo e antinaturalistico.
Zeffirelli ignora invece volutamente il retroterra culturale novecentesco, le interpretazioni problematiche di musicologi come Carner, psicanalisti come Fortini o direttori come Sinopoli. La sua impostazione è prettamente favolistica e denota un interesse esclusivo per il contorno decorativo e l’orientalismo sfrenato. Ecco allora che l’apparizione della splendente reggia imperiale nel secondo atto – una combinazione scenografica tra i precedenti allestimenti zeffirelliani del Met e della Scala – fa scattare puntualmente l’applauso a scena aperta, appagando il desiderio di sfarzo e spettacolarità di gran parte del pubblico areniano. Si tratta di una visione tradizionale, conservatrice e riduttiva quanto si vuole, ma legittima. I problemi di credibilità, nella traduzione scenica, nascono semmai quando in mezzo a tanto dispendio di cineserie stile “paese del sorriso” la regia viene penalizzata nei movimenti delle masse e finisce per congestionare in particolare il primo atto, tutto giocato al proscenio e affollato da un popolo oppresso che guarda da lontano i fasti della corte.
Resta il fatto che assistere a uno spettacolo come questo è come ripercorrere un sentiero della memoria, ritrovare un modo di concepire gli allestimenti che in molti reputano sorpassato, ma al quale non si possono negare grandezza e dignità. Piaccia o no, le produzioni migliori di Zeffirelli restano modelli di arte della messinscena, dove l’aggettivo tradizionale non è necessariamente sinonimo di sciatto e polveroso e dove la regia, per quanto a volte non esente da soluzioni convenzionali, è sempre accurata e mai ridotta a pura trovata effettistica.
Sul podio ritroviamo un Daniel Oren come sempre scattante e scatenato, pronto a rendere la molteplicità delle situazioni della partitura con un’ampia gamma di colori e dinamiche. Il direttore stacca tempi saettanti, incisivi, quasi a suggerire che Puccini guarda anche al Novecento segnato dai ritmi taglienti di Stravinskij e Prokof’ev. La prevalente carica vitalistica non occulta tuttavia i momenti in cui devono emergere le finezze e le magie impressionistiche dell’orchestrazione. Raramente, poi, capita di ascoltare un’orchestra così espressiva e sapida nel cogliere il carattere grottesco di alcune scene.
Anna Pirozzi è una protagonista autorevole. Non ha problemi a sostenere la tessitura e l’estensione di un ruolo tra i più improbi del repertorio lirico. Gli acuti sono sicuri, i do sovracuti svettano sfolgoranti, il fraseggio è incisivo: voce e temperamento restituiscono appieno il carattere della dominatrice, eppure il tratteggio è a tratti screziato da una liricizzazione in senso espressivo del ruolo. La Turandot della Pirozzi non è una valchiria algida e monolitica che alla fine diventa improvvisamente una donna buona e innamorata. Si percepiscono fin da subito colori diversi, inquietudini e smarrimenti che esprimono non solo il bisogno di amore e il desiderio di amare inconsci, ma rispecchiano anche la sua condizione mentale instabile, soggetta a un vero e proprio sdoppiamento psichico.
Calaf è Gregory Kunde, che dispone ancora dei mezzi per rendere credibile il ruolo sia sotto il profilo eroico che lirico-amoroso. Sorprendenti, in rapporto agli anni di carriera, risultano il peso vocale, lo squillo e la tenuta degli acuti (alla prima ha bissato “Nessun dorma” a furor di popolo), ma anche la capacità di piegarsi alle mezze tinte e a un fraseggio sfumato. Se poi qualche suono risulta meno duttile di un tempo e alcune smorzature e mezzevoci si opacizzano, questo lo dobbiamo all’anagrafe, non certo all’imperizia tecnica. Nell’insieme, una prova di tutto rispetto.
Ottima la Liù di Vittoria Yeo. La caratura vocale del soprano coreano è infatti perfetta per questa parte. La linea di canto è ineccepibile, l’emissione duttile, la dizione chiara. La si apprezza per la delicatezza dell’accento sfumato, la musicalità e, dunque, per la capacità di esprimere il toccante lirismo richiesto al personaggio. In più, forse per la frequentazione abituale di un repertorio più spinto, la Liù della Yeo risulta anche molto intensa e a tratti sfoggia un convincente spessore drammatico.
Funzionale, anche se un po’ irruvidito, il Timur di Giorgio Giuseppini, ed efficace il trio dei dignitari che vede imporsi in particolare il Ping di Federico Longhi; gli altri sono Francesco Pittari, Pong, e Marcello Nardis, Pang. Completano la locandina Antonello Ceron, Imperatore Altoum, Gianluca Breda, Mandarino, e Ugo Tarquini, il Principe di Persia. Bene il coro diretto da Vito Lombardi.
Successo trionfale.
Arena di Verona – 96° Opera Festival 2018
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Turandot Anna Pirozzi
Imperatore Altoum Antonello Ceron
Timur Giorgio Giuseppini
Calaf Gregory Kunde
Liù Vittoria Yeo
Ping Federico Longhi
Pang Marcello Nardis
Pong Francesco Pittari
Mandarino Gianluca Breda
Il Principe di Persia Ugo Tarquini
Orchestra, coro, corpo di ballo e tecnici dell’Arena di Verona
Coro di voci bianche A.d’A.MUS diretto da Marco Tonini
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Emi Wada
Movimenti coreografici Maria Grazia Garofoli
Lighting design Paolo Mazzon
Coordinatore del corpo di ballo Gaetano Petrosino
Direttore allestimenti scenici Michele Olcese
Verona, 30 giugno 2018