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Venezia, Teatro La Fenice – Semiramide

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Bisogna dare atto a Cecilia Ligorio, regista della nuova edizione di Semiramide alla Fenice, di non tediarci con la consueta fuffa politicamente corretta che molti suoi colleghi spargono ormai a piene mani su tutto il repertorio operistico. Per una volta, anche nelle famigerate note di regia, non si parla a sproposito di drammi di migranti, o di femminicidi a cui ribellarsi (magari cambiando il finale) in nome della sensibilità di oggi applicata alle storie di ieri.
Ligorio considera la protagonista dell’ultima opera italiana di Rossini per quella che è: dittatrice e assassina, lussuriosa fino all’incesto, maestra di iniquità disposta a tutto per il potere. Un personaggio naturalmente complesso, tormentato da paure e fantasmi del passato, ma al quale è negata ogni simpatia o possibilità di redenzione. Tant’è che lo stesso Rossini, con il distacco e il cinismo che gli sono propri, la lascia morire sbrigativamente nel buio di un tempio, quasi disinteressandosene.
La giovane regista vede insomma nella regina di Babilonia una sorta di archetipo, un mito che ci parla delle contraddizioni e degli abissi dell’animo umano e ci interroga su cosa siamo disposti a rinunciare pur di conquistare il potere. Un dramma dai risvolti anche politici e che rimanda ai meccanismi tipici di ogni regime totalitario: tale è infatti il regno di Semiramide, che viene evocato nel primo atto dello spettacolo veneziano in tutta la sua opulenza e magnificenza esteriore. Le scene di Nicolas Bovey, pur nella semplicità delle linee, sono un trionfo di oro e bellezza, di candidi costumi (a firma Marco Piemontese) e cascate di fiori. Una ambientazione orientaleggiante ma in sostanza astorica, che nel secondo atto precipita e si vanifica: con l’emergere della colpa, la scena si fa buia e si riduce a una pedana circolare e a tendaggi e costumi neri, finché tutti finiscono travolti dal vortice della tomba di Nino, che a poco a poco si svuota fino a lasciare i personaggi immersi nell’oscurità totale. Dal punto di vista registico, la prima parte è per lo più statica e ravvivata qua e là da interventi mimici e accurati movimenti coreografici (Daisy Ransom Phillips). Nella seconda, lo scavo sui personaggi e i loro rapporti risulta più approfondito in senso drammatico, e Lagorio sembra guardare a lavori “progressivi” del successivo melodramma ottocentesco, con momenti – penso alla grande scena di Assur – che cedono a un taglio quasi espressionista.

Del resto che Semiramide sia un’opera di transizione soggetta a un bipolarismo interpretativo, non è una novità. Nata proprio per la Fenice nel 1823, è considerata una sintesi di tutto il teatro serio rossiniano, oltre che una summa del belcantismo e dell’artificio virtuosistico. Paradossalmente, in questo monumento al passato e all’arcaismo canoro, si è voluto sempre scovare un’ansia di rinnovamento, individuando i preannunci del teatro che verrà: le anticipazioni di Bellini, Donizetti, Verdi e addirittura Wagner (per Roncaglia alcuni temi della sinfonia ripetuti durante l’opera precorrono il “sistema wagneriano”). Sotto questo profilo, Riccardo Frizza, dal podio dell’Orchestra della Fenice, sembra interessato a esaltare non tanto le ascendenze barocche e il classicismo marmoreo dell’opera rossiniana, quanto il suo respiro tragico e le profezie di un acceso e cupo romanticismo. Per il direttore bresciano, il Rossini di Semiramide, più che un conservatore fermo all’ultima spiaggia del melodramma barocco, è un uomo di teatro già proiettato verso il Guglielmo Tell, anticipatore dei deliri di Nabucco e Macbeth, alla ricerca di effetti – è il caso del quintetto “Qual mesto gemito” – a cui Verdi attingerà per il “Miserere” del Trovatore. Un Rossini certamente ridimensionato nel languore e nell’idillio amoroso, come nelle tinte leggere e brillanti, ma adeguatamente vario e dal passo teatrale sicuro. Nel corso di un’esecuzione rigorosamente integrale, per un totale di circa quattro ore di musica, non si registrano momenti di noia o cali di tensione.

Vera e propria opera monstre, Semiramide richiede ai cantanti la capacità di affrontare una scrittura che, nel caso della protagonista e di Arsace, sembra sintetizzare tutti gli schemi del canto virtuosistico: dal trillo al vocalizzo terzinato, dalla fiorettatura languida alle agilità di forza, ai passaggi di sbalzo. Tra i componenti del cast impegnato alla Fenice, Jessica Pratt è quella ad avere le carte maggiormente in regola in materia di stile e virtuosismo. Certo, qua e là, la tessitura centrale del ruolo concepito da Rossini per la Colbran, che in origine era contralto, non la mette a proprio agio; inoltre il temperamento drammatico dell’interprete non è tale da restituire con la necessaria incisività i momenti in cui il personaggio deve imporsi con imperio regale. Tuttavia, Pratt ha l’accortezza di non forzare mai le emissioni, concentrando le sue risorse espressive nei passi di più disteso belcantismo e nelle zone alte della tessitura, dove può esibire sopracuti, agilità e acrobazie varie con disinvoltura ed eleganza.
La giovane Teresa Iervolino arriva al debutto nel ruolo di Arsace sicuramente preparata e con buone potenzialità, ma la sua affinità vocale e drammatica con i ruoli da guerriero rossiniani ha ancora bisogno di essere corroborata. La cavatina d’entrata risulta poco incisiva e si vorrebbe una maggior proiezione del suono in zona acuta. La resa migliora nel corso della recita: il timbro brunito viene valorizzato nei cantabili e nei momenti patetici e amorosi, specie nei duetti, mentre le agilità, anche quelle rapidissime, risultano nitide e precise, per quanto tendenzialmente meccaniche e povere di mordente.
Assur è Alex Esposito, impegnato a restituire il carattere quasi demoniaco del personaggio. Ma il suo è un demonismo che guarda troppo avanti rispetto allo stile rossiniano. La linea di canto è discontinua e soprattutto i recitativi sono costellati di forzature e scatti rabbiosi che compromettono la nobiltà e il tono aulico tipici di una parte virtuosistica scritta per un basso cantante mitico quale Filippo Galli. Il fraseggio di per sé sarebbe espressivo, scavato, l’accento vario, ma il risultato complessivo è un Assur sui generis, sempre sopra le righe anche nella recitazione. Si aggiunga che la coloratura è a tratti approssimativa e qualche acuto poco timbrato.
In rapporto alla difficoltà che il ruolo di Idreno presenta nella versione integrale dell’opera, Enea Scala esce dal cimento a testa alta. Qualche inflessione timbrica potrà anche non piacere (questione di gusti), ma il tenore supera i problemi posti da una tessitura altissima e regge agevolmente gli sconfinamenti in zona sopracuta, risolvendo con decoro la fitte agilità previste.
Ben timbrato e nell’insieme autorevole l’Oroe di Simon Lim, e funzionali i contributi di Marta Mari, Azema, ed Enrico Iviglia, Mitrane. La voce dell’ombra di Nino è quella (amplificata) di Francesco Milanese. Eccellente la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Alla prima, successo entusiastico per tutti.

Teatro La Fenice – Stagione lirica e balletto 2017/2018
SEMIRAMIDE
Melodramma tragico in due atti
Libretto di Gaetano Rossi
dalla Tragédie de Sémiramis di Voltaire
Musica di Gioachino Rossini

Semiramide Jessica Pratt
Arsace Teresa Iervolino
Assur Alex Esposito
Idreno Enea Scala
Azema Marta Mari
Oroe Simon Lim
Mitrane Enrico Iviglia
Nino Francesco Milanese

Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Riccardo Frizza
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Cecilia Ligorio
Scene Nicolas Bovey
Costumi Marco Piemontese
Light designer Fabio Berettin
Movimenti coreografici Daisy Ransom Phillips
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Progetto Rossini nel 150° anniversario della morte
Venezia, 19 ottobre 2018

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