Venezia, Teatro La Fenice – La vedova allegra
Qualcuno dica ai ministri delle finanze europei che esiste un modo molto semplice per risanare i bilanci delle banche sull’orlo del collasso: reperire una bella vedova. Ovviamente allegra e, soprattutto, ricca. La ricetta la suggerisce Damiano Michieletto nel nuovo allestimento di Die lustige Witwe (La vedova allegra) in scena al Teatro la Fenice, dove il primo atto dell’operetta di Franz Lehár si svolge non nell’ambasciata parigina del fantomatico Stato di Pontevedro, ma nella hall della Pontevedro Bank.
Il regista intende sottolineare che nella Vedova tutto ruota attorno ai soldi. Idea tutt’altro che peregrina o alternativa, considerato che sta alla base della vicenda raccontata dai librettisti Léon e Stein, e a maggior ragione pertinente se consideriamo che il potere esercitato da sesso e denaro sull’uomo e sulle cose del mondo – politica compresa – è noto da sempre. La trovata della banca, insomma, non è nuova: ci aveva giocato anche lo spettacolo con la regia di Tiezzi visto a Trieste e a Verona, dove però l’azione veniva collocata alla fine degli anni Venti, all’epoca del crollo di Wall Street e della grande depressione. Michieletto invece sposta la vicenda alla fine degli anni Cinquanta: nessuna guerra, nessuna crisi economica in prospettiva, nessun Titanic in procinto di affondare. Siamo alle soglie del boom economico. Ciononostante, le casse della Pontevedro Bank sono vuote e il direttore del piccolo istituto creditizio di provincia, Mirko Zeta, traffica per evitare il fallimento. Inutile dire che la soluzione al disastro finanziario sarà proprio la bella Glawary con i suoi ventimila milioni. Danilo, vecchia fiamma della vedova, non è altro che uno svogliato segretario della banca, che evade dalla routine frequentando night club, ed è a lui che il direttore si rivolge per evitare il crack.
Un’ambientazione realistica, ben evocata dalle scene di Paolo Fantin e dagli splendidi costumi di Carla Teti, dove tutto si svolge di conseguenza: nel secondo atto siamo in una balera, con l’orchestrina in scena che interagisce con l’orchestra in buca, mentre il terzo ci porta nell’ufficio dove Danilo si addormenta ubriaco dopo i bagordi. Le grisettes di Maxim’s non sono altro che un sogno: entrano in scena dalla finestra e dallo schedario, per poi svanire al risveglio. Un’altra componente onirica, un tocco di Realismo magico riguarda la presenza di Njegus, che rispetto alle Vedove tradizionali, dove la parte è ampliata spesso a dismisura, qui pronuncia poche battute e viene ridotto quasi a mimo: un deus ex machina, una sorta di Cupido che mette in moto e porta a compimento le trame amorose delle coppie protagoniste.
Lo spettacolo, applaudito calorosamente dal pubblico, è costruito benissimo: che Michieletto e il suo team sappiano fare teatro ad alto livello non è una novità. Tuttavia l’effetto complessivo di questa Vedova, nonostante il dinamismo scenico e la coerenza dell’impostazione (apprezzabile anche la scelta di proporla in lingua originale), è straniante rispetto alla musica di Lehár. Per più motivi: per esempio, il fatto di dover ascoltare i valzer e vederli trasformati in twist e rock and roll acrobatico nelle coreografie di Chiara Vecchi, oppure respirare nel secondo atto un clima da balera dove le suggestioni dei dipinti di Hopper si mescolano con atmosfere ora alla Altman ora alla Grease. La sensazione non cambia nell’ufficio del terzo, nonostante l’apparizione delle avvenenti grisettes. Ciò che spira a tratti sullo spettacolo di Michieletto non è malinconia o nostalgia, la Sehnsucht pungente e inappagabile di cui è intrisa oggettivamente la musica di Lehár, ma tristezza. E una Vedova allegra dai risvolti tristi è una contraddizione in termini: non funziona davvero.
La conduzione di Stefano Montanari, per la prima volta impegnato in una operetta, si può sintetizzare con due aggettivi: eccentrica e vitale. Eccentrica perché non si aggancia, né si oppone, ad alcuna tradizione interpretativa. È autoreferenziale, come se la lezione dei grandi direttori di area mitteleuropea e slava – da Ackermann a Karajan, a Matačić, tanto per citare i più grandi in Lehár – non fosse mai esistita. Montanari dirige con la libertà di ritmo, agogica e dinamica che lo contraddistingue anche nel repertorio barocco, in Mozart e Rossini. Questo significa che, nonostante l’impronta stilistica sui generis, l’orchestra con lui è pur sempre vitale e comunicativa, esprime intensità sentimentale, umori languidi, e delinea ritmo e brillantezza con colori vivaci e stacchi di tempo trascinanti.
Accertato che siamo di fronte a un cast dove tutti sono bravissimi dal punto di vista scenico, non c’è dubbio che l’elemento migliore a livello vocale sia Christoph Pohl, che ricordavo come eccellente Wolfram nel Tannhäuser con la regia di Bieito. Qui è un Danilo ineccepibile, ben timbrato, corretto e morbido nell’emissione, capace di un bel legato. Scenicamente non ha lo charme che di solito si associa al personaggio, ma è perfettamente funzionale alla dimensione impiegatizia richiesta dalla regia.
La protagonista, Nadja Mchantaf, ha una presenza scenica ideale: è carina, si muove con grazia e spigliatezza, balla con disinvoltura. La voce però è piccola, povera di colori, fissa e dura negli acuti, e il Lied della “Vilja” scorre via senza malìe.
L’altra coppia di amorosi, Camille-Valencienne, non si può dire che sia vocalmente ben amalgamata: lui, Konstantin Lee, ha volume contenuto e timbro opaco, canta con correttezza, ma non emerge; lei, Adriana Ferfecka, ha maggior peso vocale, buona timbratura, linea di canto apprezzabile, ma come interprete manca di brio e spigliatezza.
Bravo nella caratterizzazione, ma vocalmente in difficoltà Franz Hawlata come Mirko Zeta. La pattuglia dei comprimari risulta nell’insieme ben assortita, ma dati i tagli dei dialoghi e l’impostazione della regia, solo il funzionale Karl-Heinz Macek, nei panni del pur ridimensionato Njegus, ha la possibilità di ritagliarsi un cammeo di un certo rilievo. Gli altri sono ineccepibili nell’inserirsi in un ben calibrato gioco di squadra. Ricordo le presenze di Simon Schnorr, Cascada, Marcello Nardis, St. Brioche, Roberto Maietta, Bogdanowitsch, Martina Bortolotti, Sylviane, William Corrò, Kromow, Nicola Ziccardi, Pritschitch. Ottimo il contributo del coro preparato da Claudio Marino Moretti. [Rating:3/5]
Teatro La Fenice – Stagione Lirica e Balletto 2017/18
DIE LUSTIGE WITWE
Operetta in tre parti
Libretto di Victor Léon e Leo Stein
Musica di Franz Lehár
Hanna Glawari Nadja Mchantaf
Danilo Danilowitsch Christoph Pohl
Valencienne Adriana Ferfecka
Kromow Willam Corrò
Mirko Zeta Franz Hawlata
Cascada Simon Schnorr
Camille de Rossillon Konstantin Lee
Raoul de St-Brioche Marcello Nardis
Bogdanowitsch Roberto Maietta
Sylviane Martina Bortolotti
Olga Zdislava Bočková
Pritschitsch Nicola Ziccardi
Praskowia Daniela Baňasová
Niegus Karl-Heinz Macek
Lolo Alessandra Calamassi
Dodo Mariateresa Notarangelo
Jou-Jou Rossella Contu
Frou-Frou Alessandra Gregori
Clo-Clo Chiara Lucia Graziano
Margot Krizia Picci
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Montanari
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Coreografie Chiara Vecchi
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione con Teatro dell’Opera di Roma
Venezia, 2 febbraio 2018