Ultimo titolo in cartellone per la stagione d’opera e balletto, La traviata di Giuseppe Verdi ritorna sul palcoscenico del Teatro Verdi di Trieste. L’opera per eccellenza, dunque, a conclusione di un programma tutto imperniato sui grandi classici, dove “l’insolito” era costituito dall’inaugurale Evegnij Onegin, frutto più della necessità di richiamare il grande pubblico con la rassicurante certezza della tradizione, che di un ben preciso disegno di variegata offerta culturale, controbilanciato per altro da una qualità delle esecuzioni che negli ultimi anni si è consolidata su buoni livelli. Questa produzione del capolavoro verdiano – con cui si chiude qui anche l’ideale riproposta della trilogia popolare con Il trovatore visto a inizio anno e Rigoletto nella passata stagione – parrebbe suggellare in qualche modo questa impressione: uno spettacolo nel segno della tradizione che poggia su solide basi, nonostante il percorso apparentemente accidentato che lo ha preceduto. Dal direttore ai cantanti, quasi tutti i nomi sono stati cambiati rispetto a quelli annunciati originariamente, compreso lo storico allestimento di Josef Svoboda, sostituito da una nuova produzione firmata da Giulio Ciabatti per la regia e Italo Grassi per i costumi, che verrà portata in tournée in Giappone nel 2019.
È una Traviata dipinta con tinte cupe, isolata in grandi spazi quella a cui assistiamo: pochi arredi, quinte nere e un fondale su cui campeggiano, appena tratteggiati, rilucenti fra le tenebre, grandi lampadari a gocce per il primo atto; una struttura che richiama le serre ottocentesche, oltre i cui vetri si scorge un ampio giardino crepuscolare nella prima scena del secondo atto; quinte rosso cupo con disegnati grandi ventagli per la festa in casa di Flora; un ampio e squallido spazio vuoto con al centro il letto di Violetta e qualche baule da un lato per il terzo atto. Un allestimento che risolve con il decoro e la sapienza dello scenografo Italo Grassi quella che si direbbe povertà di mezzi, un dato con cui evidentemente bisogna fare i conti. I costumi sobri accendono di raffinati colori pastello il primo atto, e di tutta la gamma di cui si riveste l’immaginario spagnolo delle corride il secondo quadro del secondo atto, mentre per Violetta, un fiore che si spegne in contrasto con la vita che le turbina intorno, si prediligono calde tonalità di marrone e tinte autunnali.
Giulio Ciabatti si muove, in questi spazi, a suo agio, specie nelle scene d’insieme, fedele a questa immagine di isolamento della protagonista, che trova il suo culmine nel finale dove coglie la dimensione eroica a cui la consegna Verdi con gli accordi di quella quasi marcia funebre che pone la sua protagonista, sublimandola con intuizione geniale, dal piano dell’umano a quello dell’epos: il dramma borghese in nuce trova la sua eroina che con un sacrificio d’amore si affranca dalla mediocrità di quel mondo e che come tale muore. Sola, in un fascio di luce che si proietta oltre il fondale, la Violetta di Ciabatti coglie questi tratti e i caratteri metateatrali della scena – parrebbe quasi Adriana Lecouvreur – ma forse si spinge un po’ troppo oltre in quell’ultimo gesto di farle deporre una camelia in proscenio, nell’atto di inginocchiarsi. Peccato, sviluppata altrimenti questa intuizione avrebbe potuto ottenere esiti più alti.
Gilda Fiume è dotata di una voce dal bel timbro omogeneo in tutta l’estensione, sostenuta da una buona tecnica. Risolve egregiamente le agilità del primo atto chiudendo la sua grande scena con il tradizionale mi bemolle, e controlla perfettamente i fiati nell’arco di tutta l’esecuzione. Può attingere a una bella gamma di colori e il fraseggio è sempre attento e vario. Vocalmente è una prova di grande livello e basterebbe il la con cui conclude “Addio del passato” a dimostrarlo. Purtroppo, talvolta tende a ripiegarsi su una chiave di lettura eccessivamente lirica: “l’amore d’Alfredo persino mi manca” come la successiva frase mancano di quell’afflato che le unisca in un’unica arcata piuttosto che isolarle in due begli incisi. Allo stesso modo, purtroppo, dopo il bel duetto con Germont e alcune interessanti soluzioni interpretative, il climax a cui tutta la prima parte di questo quadro tende, perde improvvisamente enfasi, si spegne, complice anche la direzione di Caro. Ci sono tuttavia tutte le premesse perché questa sua Violetta cresca e maturi.
Lo stesso si può dire per Francesco Castoro che, nella recita a cui abbiamo assistito, è stato chiamato a sostituire all’ultimo momento l’annunciato Motoharu Takei. Tenore lirico, Castoro ha voce squillante negli acuti ben sostenuti e in maschera, e possiede una buona tecnica che, perfezionata, gli consentirà un completo controllo dello strumento perché risponda in tutto alle sue intenzioni. Quello che manca al suo Alfredo – ma è forse dovuto alle circostanze e ci piacerebbe sentirlo in altro contesto – è un fraseggio più approfondito, una maggiore varietà dinamica; risulta tuttavia particolarmente convincente nella cabaletta “Oh mio rimorso, oh infamia” e nel duetto con Violetta nel finale secondo.
Giorgio Germont è Leon Kim, giovane baritono coreano già sentito in Lucia di Lammermoor. Timbro brunito, Kim possiede un notevole volume di voce ma, registrato il successo personale ottenuto in questa recita, va detto che il ruolo sembra andargli stretto. Il suo è un Germont granitico, senza un reale approfondimento psicologico. Il canto è quasi perennemente forte e solo in poche frasi della seconda strofa dell’aria “Di Provenza il mare il suol” trova quegli accenti più intimi di cui la parte è tuttavia ricca e un’emissione conseguentemente più morbida. Più che un padre borghese, prigioniero delle convenzioni sociali, a cui sacrifica la felicità del figlio relegando la redenzione di Violetta al sacrificio e alla rinuncia – salvo indirizzarla a una dimensione sublime che quelle non le avrebbero concesso – il suo è un villan, l’incarnazione dell’antagonista tout court.
Accanto ai tre protagonisti, ottime le prove di Isabel de Paoli e Rinako Hara rispettivamente Flora a Annina, mentre un valido contributo al successo della serata è offerto da Paolo Ciavanelli (Douphol), Dario Giorgelè (D’Obigny), Christian Collia (Gastone), Francesco Musinu (il dottor Grenvil) e Dax Velenich (Giuseppe), Roberto Miani (Un Commissario) e i ballerini Guillermo Alan Berzinis e Marijana Tanasković.
L’orchestra del Teatro Verdi è diretta da Pedro Halffter Caro che offre una lettura funzionale e attenta alle voci, al suono orchestrale e al fraseggio, ma che è complice di quelle cadute di tensione già registrate sopra: si fatica a portare l’accumulo di tensione al climax, nella cui costruzione Verdi è maestro. Di direbbe che manchi una visione generale e unitaria della partitura. Le pagine meglio riuscite risultano quelle d’insieme grazie anche all’eccellente concorso del coro preparato da Francesca Tosi, dal brindisi all’ampio finale secondo.
Pubblico numeroso e applausi calorosi a termine della rappresentazione, in attesa di ritornare in sala in autunno per una stagione che auspichiamo di pari livello se non ancora maggiore e più stimolante nelle proposte.
Teatro Verdi – Stagione lirica e di balletto 2017/18
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti
Libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry Gilda Fiume
Alfredo Germont Francesco Castoro
Giorgio Germont Leon Kim
Flora Bervoix Isabel De Paoli
Barone Douphol Paolo Ciavarelli
Marchese d’Obigny Dario Giorgelè
Dottor Grenvil Francesco Musinu
Gastone, Visconte de Létorières Christian Collia
Giuseppe, servo di Violetta Dax Velenich
Annina Rinako Hara
Un domestico di Flora Fumiyuki Kato
Un Commissionario Roberto Miani
Ballerini solisti Guillermo Alan Berzins, Marijana Tanasković
Orchestra, coro e tecnici della Fondazione Teatro Verdi di Trieste
Direttore Pedro Halffter Caro
Maestro del coro Francesca Tosi
Regia Giulio Ciabatti
Scene Italo Grassi
Coreografie Guillermo Alan Berzins
Nuovo allestimento della Fondazione
Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 26 giugno 2018