Come poche altre opere, Il trovatore ha un potere evocativo pari a quello di certe formule e nomi che si riscontrano nella oscura mitologia di Lovecraft: quelli che al solo pronunciarli evocano spettri e divinità del passato. Basta scriverlo su una locandina o sussurrarlo, e i primi a presentarsi a teatro sono proprio quegli dèi di un’età dell’oro in cui bastava che una bacchetta si levasse e una bocca si aprisse per essere trasportati su ali rosee nel Walhalla. Dietro ai miti c’è una verità storica, ma non è alla ricerca di quella che dobbiamo andare, assistendo, oggi, a una rappresentazione di questo massimo fra i capolavori verdiani che il Teatro Verdi di Trieste ripropone nel giorno esatto della sua prima assoluta avvenuta il 19 gennaio 1853. Saremmo degli spettatori irriverenti e delusi. Questo Trovatore offre infatti, nel complesso, quello che chiediamo a uno spettacolo teatrale – coerenza, gusto, verosimiglianza nel racconto – e nell’esecuzione musicale: rispetto della partitura, una buona tecnica e una sostanziale pulizia stilistica. Fatti ovviamente i dovuti distinguo.
Se Il trovatore è in qualche modo diventato, in questa nostra mitologia vocale, sinonimo di tenore, diciamo pure che il tenore a Trieste non è mancato. Antonello Palombi ha una voce con un volume imponente e un’estensione che gli permette di affrontare gli acuti – quelli scritti e quelli voluti dalla tradizione – senza problemi e a tratti con spavalderia. E se tenore è a sua volta sinonimo di un certo machismo e divismo canoro anche questo è in parte presente nel suo Manrico, il cui problema maggiore è forse quello di essere dotato di una personalità vocale multipla. A tratti Otello nel registro medio basso, pieno tonante e cupo, eccessivamente drammatico nell’accento, a tratti Canio in certe frasi del finale con Leonora morente, sa tuttavia trovare accenti e un fraseggio convincente nelle parti più liriche, a partire da “Deserto sulla terra” sino al duetto del IV atto Azucena, passando per una “Ah sì ben mio” dove ha la bella intuizione di riferirsi con timoroso pudore alla propria possibile morte in battaglia. Rispetto ai mezzi naturali di cui è dotato, la pagina più attesa è stata affrontata con un’apparente prudenza e, seppure corretta ritmicamente, meno partecipata e ardente di quello che la Pira ci si aspettava accendesse in Manrico. Se tecnicamente il controllo della voce non sembra perfetto e a tratti le note sul passaggio sono sfocate, gli va dato il merito di avere disegnato un personaggio completo e vivo, figlio affettuoso, amante premuroso e combattivo, seppure di non grande raffinatezza stilistica, che invece si apprezza nella Leonora di Marily Santoro. Il giovane soprano reggino è dotato di una voce di un bel colore, con un volume non particolarmente ampio nel registro medio, ma canta sul fiato e la voce sale con facilità verso gli acuti ben sostenuti. Scandisce bene e fraseggia con grande musicalità dando a ogni frase il giusto respiro. La sua Leonora è una ragazza innamorata che affronta con consapevolezza e quasi rassegnazione il sacrificio, priva di altisonanti pose drammatiche. Non ci sono nella sua lettura parti sfocate: tutto è controllato e chiaro e penso nelle recite a venire potrà solo migliorare questa sua interpretazione, che culmina nella grande scena del IV atto, eseguita integralmente, in cui ci regala acuti in pianissimo, dal suono tuttavia sempre pieno e morbido.
Non propriamente a fuoco è l’Azucena della serba Milijana Nikolic. Se il personaggio c’è, lo deve, mi pare, più alle doti di attrice, che all’uso dello strumento. A partire da “Stride la vampa” il registro medio basso suona artificiosamente scuro e gonfiato come nello sforzo di dargli volume. L’espressività musicale e il fraseggio ne risentono, anche a causa di una scansione ritmica e trilli non perfetti. Le cose migliorano con “Condotta ell’era in ceppi”, nel duetto con Manrico, e in generale quando la voce scorre più libera e si dimostra in grado di affrontare gli acuti con una certa sicurezza, seppure con timbro aspro. Ma in generale l’emissione non è omogenea e forse la parte più a fuoco è la scena della prigione, dove il controllo della linea vocale è più accurato.
Il Conte Luna è affidato a Domenico Balzani che sul palcoscenico triestino è di casa. Seppure a tratti la voce suoni sfibrata, il baritono offre ancora una bella prova improntata a grande sensibilità e intelligenza musicali. Bel fraseggio e ottima dizione disegnano un Conte preda della propria passione, ma anche dei propri fantasmi del passato e dubbi. “Il balen del suo sorriso” è nobile e ben dosato, come pure la successiva “Per te ora fatale” che si fa apprezzare per l’emissione morbida dei piani. Pienamente positiva anche la prova di Vladimir Sazdovski, dotato di una bella voce di autentico basso che trova la giusta tensione nella cupa scena d’apertura, affrontando e risolvendo piuttosto bene le quartine e le puntate ai “mi” della sua “Abbietta zingara”. Completano il cast vocale l’ottima Momoko Nashitani nei panni Ines e gli altrettanto validi Andrea Schifaudo, Roberto Milani e Fumiyuki Kato in quelli di Ruiz, di Un Messo e di Un vecchio zingaro.
Eccellente il Coro del Teatro Verdi di Trieste diretto da Francesca Tosi, con una particolare menzione questa volta alle voci maschili che si sono distinte particolarmente nella prima scena. Dirige l’Orchestra del Teatro Verdi Francesco Pasqualetti a cui una minoranza del pubblico – che in generale ha applaudito, seppure non con grande slancio, lo spettacolo – ha riservato qualche contestazione. Definire trascinante o illuminante la sua lettura della partitura non è possibile. Certo lo stacco di alcuni tempi sembra eccessivamente sostenuto, come nel caso di “Di tale amor che dirsi”, e lunghe sono alcune pause trascinate oltre il lecito alla ricerca dell’effetto. Ma tenuta del fraseggio e della tensione narrativa sono complessivamente garantite, come pure l’equilibrio fra palcoscenico e golfo mistico e una bella gamma di colori che sa trarre dall’orchestra, senza mai scadere in effetti bandistici o sciatterie.
Dell’allestimento del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor, aveva già detto qui Francesco Bertini in occasione di una recente produzione al Verdi di Padova. Filippo Tonon firma regia – assistito da Gaia Gastaldello – scene e luci: non cerca riletture e non costruisce immensi impianti scenici. Diciamo anzi che gli elementi sono davvero pochi e molto è lasciato all’immaginazione dello spettatore e all’evocazione filtrata da una sensibilità di ispirazione preraffaellita a cui concorrono i bei costumi di Cristina Aceti. Ne nasce uno spettacolo di impianto tradizionale, ma di buon gusto e ben narrato, in cui i personaggi che si muovono in uno spazio prevalentemente nero e lo riempiono di sé, possono riprendere il loro autentico ruolo di protagonisti. Con buona pace di fantasmi e dei.
Teatro Verdi – Stagione lirica e di balletto 2017/2018
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti su libretto di Salvatore Cammarano
dal dramma El trovador di Antonio Garcia Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il conte di Luna Domenico Balzani
Leonora Marily Santoro
Azucena Milijana Nikolic
Manrico Antonello Palombi
Ferrando Vladimir Sazdovski
Ines Momoko Nashitani
Ruiz Andrea Schifaudo
Un messo Roberto Miani
Un vecchio zingaro Fumiyuki Kato
Orchestra e Coro della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Francesco Pasqualetti
Maestro del Coro Francesca Tosi
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Cristina Aceti
Allestimento del Teatro Nazionale Sloveno di Maribor
Trieste, 19 gennaio 2018