Torino, Teatro Regio – Il trovatore
Il Teatro Regio inaugura la Stagione 2018/2019 con Il trovatore di Giuseppe Verdi: una buona idea se si considera che la precedente messinscena torinese risaliva al 2005 (in barba a chi si lamenta di continuo del cosiddetto “repertorio”, come se certi titoli venissero dati sempre nei medesimi teatri e a stagioni alterne) e che a ogni ascolto dal vivo si riconferma una delle opere più autenticamente radicate nel nostro DNA, e di conseguenza più amate.
L’allestimento proveniente dal Comunale di Bologna e firmato da Paul Curran è di ambientazione ottocentesca. L’impianto scenico e i costumi ideati da Kevin Knight sono di ottima fattura, così come il disegno luci di Bruno Poet, ripreso da Andrea Anfossi, che rispetta le cromìe tradizionalmente associate alle ambientazioni e alle tematiche del libretto: il blu, freddo, per la notte e per il carcere, ma anche per l’incomunicabilità di un amore ostacolato o la solitudine di uno non corrisposto; il rosso bruciante per il falò degli zigari, ma pure per gli incubi e le visioni di roghi che tormentano l’anziana donna. Il regista sembra però fermarsi a soluzioni prevalentemente didascaliche, posizionando compitamente gli interpreti nello spazio scenico, ma lasciandoli al contempo privi di spunti interessanti per quanto riguarda l’interazione personale.
Pinchas Steinberg dirige con scarsa fantasia, ma con solido mestiere e, tolto il prologo un po’ pasticciato nella quadratura ritmica, accompagna con amorevole premura i momenti solistici, facendo affiorare al meglio il respiro delle melodie.
Attraverso un canto dove musicalità ed eleganza si fondono in armonia, la bella Rachel Willis-Sørensen restituisce alla scrittura di Leonora le sue flagranti ascendenze belcantistiche, facendone una figura inafferrabile, quasi impalpabile, ma mai evanescente. L’arco della frase musicale risulta impeccabile, in virtù di un fraseggio curatissimo, valorizzato da prese di fiato non men che perfette. Capita di rado di ascoltare un tale “D’amor sull’ali rosee”, venato di carezzevole mestizia, dove gli squisiti portamenti discendenti sono una cascata di piccole note legatissime eppure ben definite. Inoltre, la cantante non commette l’errore di cercare suoni che non appartengono alla propria organizzazione vocale, sostanzialmente leggera, e risolve le pagine cariche di pathos dosando con attenzione i giusti colori e gli accenti (penso ad esempio al “Miserere”). Dotata anche di un bel trillo preciso, ci risparmia dall’effetto-coccodè sia nei picchiettati della prima cabaletta, sia nel concertato che chiude la seconda parte (“è questo un sogno, un’estasi…”). Di meglio può invece essere fatto in termini di articolazione della parola, laddove, specialmente nella fascia centrale, si evidenzia una certa tendenza a cantarsi in bocca. Peccati tutto sommato veniali di fronte a una prova di livello, capace di dare risalto, e con esiti chiarissimi, alla differenza che corre fra chi canta e basta e chi, cantando, sa davvero fare musica.
Degna e applauditissima coprotagonista, Anna Maria Chiuri è un’Azucena di grande autorevolezza scenica, giocata interamente sul potere non solo evocativo, ma anche propriamente fonico della parola. Ogni singola sillaba viene pesata e sbalzata in una linea dalle dinamiche infinitesimali (esemplare, a tal proposito, tutta la scena finale del carcere), e anche se lo strumento non si segnala per bellezza timbrica o compattezza di emissione, il personaggio della madre torturata e resa quasi folle da un segreto inconfessabile si manifesta con una forza addirittura dirompente.
Massimo Cavalletti, nei panni del Conte di Luna, ha una voce ben timbrata e particolarmente virile, che non manca mai di risultare piacevolmente seducente, al pari della presenza sulla scena. In quest’occasione lo si trova particolarmente in forma, con emissione controllata e ben attento a che la nobiltà tipica del baritono verdiano non venga mai meno. “Il balen del suo sorriso”, molto apprezzata dal pubblico, porta in sé la giusta dose di febbrile struggimento, senza facili concessioni al mero esibizionismo vocale.
Con Manrico, si scende purtroppo di un gradino. Diego Torre dà voce a un trovatore poco romantico e poco eroico. Pur cantando correttamente (“Ah sì ben mio”, nello specifico) non riesce a convincere del tutto, anche a causa di un’espressività monodimensionale e di un atteggiamento scenico troppo rinunciatario. La balenante “pira” – con quel lungo tacet sulle battute finali del coro e con il do conclusivo che fatica a emergere dall’ordito orchestrale – risulta piuttosto un tiepido fuocherello.
Il Ferrando di In-Sung Sim ha voce scura e corposa ma, oltre a pagare lo scotto della tenuta d’insieme problematica di Steinberg nella prima scena, non pare essere nemmeno un fulmine di guerra con le agilità dell’ ”abbietta zingara”.
Molto buona la prova del coro preparato da Andrea Secchi, come sottolineano soprattutto gli interventi fuori scena.
Ashley Milanese (Ines), Patrizio Saudelli (Ruiz), Desaret Lika (un vecchio zingaro) e Luigi Della Monica (un messo), eccellendo tutti nei rispettivi ruoli, sono la prova tangibile che l’assegnazione ragionata delle parti di fianco costituisce sempre un valore aggiunto al buon esito di uno spettacolo. [Rating:3/5]
Teatro Regio – Stagione d’Opera 2018/2019
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti
Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna Massimo Cavalletti
Leonora Rachel Willis-Sørensen
Azucena Anna Maria Chiuri
Manrico Diego Torre
Ferrando In-Sung Sim
Ines Ashley Milanese
Ruiz Patrizio Saudelli
Un vecchio zingaro Desaret Lika
Un messo Luigi Della Monica
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del coro Andrea Secchi
Regia Paul Curran
Scene e costumi Kevin Knight
Luci Bruno Poet, riprese da Andrea Anfossi
Allestimento del Teatro Comunale di Bologna
Torino, 13 ottobre 2018