Lascia a bocca aperta l’allestimento di Billy Budd, creazione di Benjamin Britten ispirata al racconto di Herman Melville, su un libretto di E. M. Forster e di Eric Crozier che il Teatro dell’Opera di Roma ha proposto in coproduzione con la ROH e il Teatro Real di Madrid. Stupisce non solo perché un titolo tanto importante per l’operismo novecentesco è finalmente portato per la prima volta al Teatro Costanzi, ma soprattutto perché ne viene proposta una versione – musicale e scenica – di stupefacente perfezione. Ennesimo segno di un rilancio globale della Fondazione che coinvolge non solo la programmazione principale, ma anche altri ambiti come la didattica di Fabbrica YAP che seguita a farsi veicolo di studio e lavoro per i giovani artisti, come è stato dimostrato in questa e in altre produzioni.
L’opera Billy Budd ha visto la luce al principio degli anni cinquanta, ma la versione attuale – e quella effettivamente più nota – è datata 1960. Si tratta di una nuova organizzazione formale voluta dal compositore in occasione di una registrazione per la BBC: senza troppi cambiamenti strutturali, la riduzione più vistosa è quella degli atti che da quattro passano a due, mentre tra i vari tagli il più consistente è l’eliminazione dell’aria di Vere alla conclusione dell’originale primo atto. Questi ripensamenti non mettono in crisi l’architettura della composizione, ma anzi ne rendono più vicini e più drammaticamente contrapposti i differenti momenti. L’opera presenta molte caratteristiche che la rendono degna di interesse da più punti di vista: la concezione musicale innovativa eppure estremamente rigorosa; il libretto che è percorso da inquietudini di natura morale ed etica, ma anche da alcuni scarni riferimenti all’omosessualità; l’arditezza nella scelta di un cast interamente maschile; la costante riflessione fra forza vitale e dovere sociale; l’analisi della diversità come eccezionalità e, per alcuni versi, anche ineluttabilità al sacrificio. Sono solo alcuni dei temi che è possibile ritrovare in questa e in altre composizioni di Britten, tali da renderlo, in aggiunta a una concezione orchestrale e melodica estremamente personale, uno dei compositori d’opera di riferimento nel Novecento.
La concezione registica di Deborah Warner sfrutta l’ambientazione della nave, senza però perdersi in naturalismi inutili. Billy Budd è un’opera in cui l’oceano infinito e la foschia, cioè i dati naturali, sono in realtà sensazioni e stati dell’animo. La nebbia che avvolge la fuga della nave francese è quella stessa che imprigiona Vere e gli impedisce di vedere per tempo una soluzione agli eventi, senza sacrificare l’innocente Billy. Così la scena di Michael Levine richiama sì la struttura di una nave, ma per linee essenziali, attraverso parti di un tutto che è invece amplificato e reso universale. Le corde che la attraversano dall’alto al basso e poi trasversalmente somigliano alle lance della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello e creano, come accade lì, la sensazione di una prospettiva infinita. Così a sembrare infinito non è solo il mare, ma la nave stessa. Grazie anche all’eccezionale disegno luci di Jean Kalman, che taglia il palco da ogni direzione riuscendo a creare degli spazi di volta in volta paralleli o contrapposti. Lo spazio scenico è ripartito in piani paralleli che rappresentano i ponti della nave, ma anche la medesima struttura gerarchica militare che determinerà, con l’applicazione dei suoi assurdi regolamenti, il sacrificio di un’anima innocente. Attraverso questi piani una serie di scale mette in collegamento la vita di coperta con quella del ponte principale, l’allegra baldoria dei marinai nelle loro amache e l’atteggiamento riflessivo e razionale del comandante, tutti però velati da uno strato più o meno consistente di foschia che confonde i contorni delle situazioni e permette, alla regia come alla musica, di alludere senza affermare, di suggerire ma senza offrire una lettura univoca degli atteggiamenti di ciascuno.
I movimenti coreografici di Kim Brandstrup sono evidenti ed efficaci principalmente all’inizio dell’opera, quando le masse che costituiscono l’equipaggio sono impegnate nella pulizia del ponte, per poi perdere forza, lasciando il passo alla scarna essenzialità di una regia che ha saputo trarre il meglio da ogni singolo interprete. Il gesto è sentito e incredibilmente intimo, mai fuori dal contesto drammatico, mai esagerato, certamente mai melodrammatico. E i personaggi più coinvolti in questa visione sono proprio quelli che vivono interiormente lo scontro più profondo: il capitano Vere, i tre ufficiali, Claggart e naturalmente Billy; mentre gli altri costituiscono un contorno perfettamente integrato, ma meno coinvolto in queste dinamiche conflittuali. I costumi di Chloe Obolensky richiamano epoche differenti rispetto a quella originaria del libretto, ambientato nel 1797, ma trasmettono forse anche un pathos maggiore dovuto a una contestualizzazione storica più vicina al Novecento.
Se il coro, preparato con estrema pignoleria da Roberto Gabbiani, esprime se stesso al meglio in ogni occasione, soprattutto durante il canto dei marinai che proviene da fuori, quasi a sottolineare l’assenza di confini del mare stesso come dell’animo umano, l’orchestra non è da meno. James Conlon viaggia sugli accordi, sui timbri, sulle dinamiche con esperienza e decisione. Sa quello che vuole e lo ottiene da tutti i solisti, sia in orchestra sia in palco. I passaggi strumentali che chiudono una scena e conducono alla successiva sono sempre nitidi e completamente integrati nello sviluppo drammatico, complice una perfetta sincronia con i movimenti scenici persino nei cambi di ambientazione. I colori, poi, nascono e muoiono gli uni negli altri, come le onde del mare, infinite eppure sempre immobili, eterne, proprio come la stessa vicenda dell’opera. Il gioco dei piani sonori poi replica quello della scena e delle luci, dando profondità e spazialità drammatica a una musica meravigliosa.
Infine, il cast è anch’esso di ottima qualità, in tutti i ruoli, da quelli più episodici e molto caratterizzati, fino ai protagonisti. Il tenore Toby Spence incarna Edward Fairfax Vere: un banco di prova di notevole impegno, considerando che il ruolo fu concepito da Britten per Peter Pears. Eppure Spence non teme il confronto, la sua voce è caratterizzata da un timbro chiaro, ma sempre a fuoco, ed è inoltre forgiata su un fraseggio sincero e mai artefatto. Dà del capitano una versione in linea con la tradizione, rimanendo sempre contenuto nelle manifestazioni esteriori, ma esternando ogni dubbio e ogni perplessità con un accento e un gesto semplici ed efficaci.
Il sinistro John Claggart, uomo malvagio ma anche pieno di conflitti, è superbamente interpretato da John Relyea: la voce corposa e robusta di Relyea è idonea per tutte le ombre che il personaggio deve esprimere, salendo agli acuti più drammatici e scendendo a un registro grave profondo e cavernoso. L’amore e l’odio del maestro d’armi è in realtà attrazione per Billy. Un’attrazione dubbia, come ci fa credere il gesto di un giovane marinaio nei suoi confronti, in cui si nasconde molto più che una malcelata antipatia. Claggart detesta Billy perché la sola presenza gli suggerisce sentimenti strani e inquieti, mentre egli non vuole fare altro che cancellarlo per far cessare questi sentimenti contrastanti e spaventosi. Ma intuiamo, dalle sue esitazioni, dalle stesse parole, che l’inquietudine ha radici assai più profonde e complesse. In verità nel libretto le “citazioni” – o meglio le allusioni – all’amore omosessuale sono frequenti, ma sempre nascoste, palesandosi poco più apertamente solo all’occorrenza, come avviene nelle parole ambigue parole di Claggart o nel magnifico duetto del finale primo fra Billy e uno dei marinai più vecchi, Dansker.
Quest’ultimo è interpretato assai bene da Stephen Richardson con voce generosa e aderenza scenica, così come accade per Keith Jameson, un Novizio eccellente sia come vittima che come complice. Quanto a Mr. Redburn (Thomas Oliemans), Mr Flint (Zachary Altman) e Lieutenant Ratcliffe (David Shipley), costituiscono un terzetto particolarmente ben assortito, sia sul piano vocale che su quello scenico soprattutto nella scena del processo. Possiedono tre voci i cui timbri si mescolano e si aggregano dando vita a una sonorità unica.
Ma il centro di interesse resta per tutti il Billy Budd di Phillip Addis: sensuale e giovanile, nonostante il timbro baritonale voglia – per consuetudine – comunicare una anzianità scenica che non appartiene all’interprete. Agile quanto necessario per arrampicarsi su una delle corde e seguitare a cantare da quella posizione, coraggioso nell’affrontare l’altissima scala che lo condurrà alla morte per impiccagione, Addis affronta tutto il ruolo con spigliatezza e decisione, maturando nella consapevolezza di mantenersi fedele ai suoi ideali di purezza e di lealtà, nonostante le avversità. Nella sua magnifica scena in attesa della morte, mentre il personaggio raggiunge l’apice di una maturazione interiore, accettando il sacrificio e rinunciando a salvarsi attraverso il turpe atto dell’ammutinamento, l’interprete, allo stesso tempo, riesce a trovare accenti di una purezza e di una profondità che lasciano sbalorditi. La voce brunita eppure vibrante e agile tocca tutte le corde dell’emotività umana, ma senza scadere nella vitalità sciocca, banale e fine a se stessa, bensì attraverso un percorso di consapevolezza e di responsabilità.
Di ottimo livello tutto il resto del cast, compresi i giovani professionisti di Fabbrica e gli ancor più giovani cantori della Scuola di canto corale del Teatro dell’Opera di Roma.
Teatro dell’Opera – Stagione 2017/2018
BILLY BUDD
Opera in due atti
Libretto di Edward Morgan Forster ed Eric Crozier
dal racconto di Herman Melville
Musica di Benjamin Britten
Billy Budd Phillip Addis
Edward Fairfax Vere Toby Spence
John Claggart John Relyea
Mr. Redburn Thomas Oliemans
Mr Flint Zachary Altman
Lieutenant Ratcliffe David Shipley
Red Whiskers Christopher Lemmings
Donald Jonathan Michie
Dansker Stephen Richardson
A novice Keith Jameson
The novice’s friend Johnny Herford
Squeak Matthew O’Neill
Bosun Francesco Salvadori
First Mate Timofei Baranov*
Second Mate Andrii Ganchuk*
Maintop Domingo Pellicola*
Arthur Jones Antonio Pannunzio
A sailor Lorenzo Grante
Voice William Hernandez
* Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore James Conlon
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Deborah Warner
Scene Michael Levine
Costumi Chloe Obolensky
Luci Jean Kalman
Movimenti coreografici Kim Brandstrup
Ripresa delle coreografie Joanna O’Keeffe
con la partecipazione della Scuola di canto corale del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento in coproduzione
con Teatro Real di Madrid e Royal Opera House Covent Garden di Londra
Roma, 13 maggio 2018