Era il 7 gennaio 1842 quando, dopo un lungo e travagliato caso giudiziario per l’assegnazione del diritto alla pubblicazione, il pubblico parigino poté assistere alla prima prestigiosa esecuzione dello Stabat Mater di Gioachino Rossini. Senza dimenticare Antonio Tamburini ed Emma Albertazzi, il grande richiamo fu anche la presenza della coppia Giulia Grisi e Mario che rappresentava un unicum nella vita musicale di quegli anni, sintesi di vita e arte. Ne seguì poi un’esecuzione bolognese, diretta da Donizetti e curata dallo stesso Rossini, che diede inizio a una lunga serie di medesime iniziative in Italia e in Europa. Era il segnale chiaro di un’attenzione viva e diffusa per il cigno di Pesaro che, dopo l’immenso Guillaume Tell, si era ritirato in un silenzio tanto più dorato quanto più elitario, lasciando fuoriuscire solo piccoli capolavori nella sua privata e scelta cerchia di amici. Bisogna dunque ringraziare Alejandro Aguado e don Manuel Fernández Varela se Rossini, superando la ritrosia di un confronto con l’omonima composizione di Pergolesi, si decise a comporre questo Stabat per soli, coro e orchestra. Nonostante alcune riserve sulla eccessiva teatralità – e dunque scarsa sacralità – di alcuni numeri, lo Stabat Mater di Rossini può essere annoverato fra i capolavori della musica sacra per la sua superba orchestrazione, la freschezza melodica e soprattutto per l’alternanza misurata di stili diversi, che scandiscono i differenti momenti di questa “sequenza”. Dovremmo iniziare dalle compagini orchestrali e dal coro, per ovvie ragioni di priorità: se infatti i solisti sono chiamati a un impegno tutt’altro che semplice, non va dimenticato che alcuni passaggi solistici strumentali e molte delle pagine corali presentano le stesse complessità e le medesime arditezze di un’aria o di un pezzo d’assieme. Basti pensare alla struttura architettonica del finale, in stile fugato, in cui il coro, vero protagonista, traduce il mistero religioso in messaggio universale.
In questo l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia seguitano a confermarsi fra le invidiabili eccellenze dell’arte italiana. Nonostante la direzione di Ivor Bolton non si sia rivelata particolarmente attenta al fraseggio o alle ampie arcate melodiche dei solisti, per quanto riguarda l’orchestra egli ha saputo evidenziare assai bene alcuni passi, uno per tutti il nervoso Pro peccatis del basso, in cui il rapido guizzo della melodia è messo perfettamente a fuoco nella parte iniziale, per poi perdersi un poco nello sviluppo successivo. Non è un caso che la parte migliore della sua direzione sia in forte e caratterizzata da ritmi assai vigorosi, a rispecchiare un gesto altrettanto energico, mentre il punto di debolezza è nelle melodie più distese o nei passaggi in piano che, più che vissuti di per sé, sembrano non essere altro che una pausa fra due momenti più accesi.
Molto equilibrato l’insieme dei quattro solisti, caratterizzati da peculiarità timbriche differenti, ma ben amalgamato nei brani d’assieme. Penetrante e cristallina risulta la voce di Eleonora Buratto, che ha eseguito i due do dell’Inflammatus et accensus con brillante spavalderia, dimostrando peraltro una dolcezza timbrica e un legato eccellenti. La voce brunita e seducente di Veronica Simeoni era il giusto bilanciamento dell’altra. La Simeoni ha fraseggiato al meglio ogni singola sillaba del Fac ut portem, portando con sé lo scavo della parola poetica persino nei brani d’assieme, impreziosendo così di suggestioni sonore non solo il duetto, ma anche i due splendidi quartetti. Paolo Fanale ha superato con perizia l’ardimentosa Cujus animam, staccata a un tempo più lento della tradizione. Anche se in alcuni passi il suo squillo sembrava essere meno gagliardo, il tenore palermitano ha sfoggiato alcuni delicati piano e pianissimo di notevole pregio. Infine Roberto Tagliavini, che possiede un timbro pieno e particolarmente cupo, ha dato il meglio di sé in termini di scansione e uniformità che, assieme a una attenzione al legato delle stupefacenti linee melodiche, danno conferma di grande classe interpretativa.
L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha proposto più volte nelle sue stagioni la composizione di Rossini, in programmi diversi a seconda dell’occasione. In questo caso lo Stabat è stato preceduto da una delle più toccanti composizioni di Mozart, la Sinfonia n. 39 in mi bemolle maggiore K 543. Fra le ultime composizioni sinfoniche mozartiane, l’opera gode di particolare fama. Sebbene non si conoscano i dettagli né della fase compositiva né della prima esecuzione, stando a quanto ricostruito dalla musicologia, l’importanza di questa composizione sta nella concezione stessa di sinfonia. Mozart supera se stesso, cioè il giovane Mozart, e, forte della lezione di Haydn, dà vita a un piccolo capolavoro. Una delle particolarità è l’impiego dei clarinetti: la loro presenza non era usuale allora nelle orchestre, ma il loro timbro più morbido, rispetto agli oboi, caratterizza in maniera assai diversa l’equilibrio di alcuni passaggi.
Anche in questo caso la direzione particolarmente energica di Bolton è più efficace nei passaggi d’insieme, in cui il “tutti” giustifica la pienezza sonora, ma lo è meno in quelli solistici. L’orchestra, dal canto suo, riesce sempre a offrire il meglio sia sul fronte timbrico sia su quello melodico, le cui prime parti riescono a far brillare sempre in maniera eccellente.
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione 2017/18
W.A. Mozart: Sinfonia n. 39 in Mi bemolle maggiore K 543
G. Rossini: Stabat Mater per soli, coro e orchestra
Soprano Eleonora Buratto
Mezzosoprano Veronica Simeoni
Tenore Paolo Fanale
Basso Roberto Tagliavini
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Ivor Bolton
Auditorium Parco della Musica, Roma, 28 aprile 2018