Ricciardo e Zoraide o dello «style oriental». In questi termini Stendhal brevemente inquadrava l’opera rossiniana, nella sua celeberrima biografia, per differenziarla dalle altre dell’epoca napoletana: quasi a voler segnare un rinnovato interesse per un orientalismo coltivato sin dall’Italiana in Algeri, ma che appena cinque anni più tardi viene interamente, radicalmente ripensato, per essere declinato nella sua variante seria. Ma esiste davvero un orientalismo nello “stile” di Ricciardo e Zoraide? E soprattutto: esiste un’unità di stile – diremmo oggi di drammaturgia – in un’opera in cui finanche uno dei personaggi minori, poco prima della conclusione, incredulo commenta «Oh! quante vicende | S’affollano in un punto!» La nuova produzione pesarese, che ha inaugurato con un successo al calor bianco il Rossini Opera Festival, ha avuto, tra gli altri, il merito di rispondere al quesito: individuando alcune traiettorie interpretative, sottese alla partitura, che la attraversano dalla Sinfonia iniziale fino al complesso, innovativo Finale ultimo, innervandone l’impianto. Ne è scaturita una visione dell’opera che, se non iscrive questo titolo tra i capolavori della stagione italiana, certo ne sottolinea l’importanza, anche per il confronto con una scrittura appositamente concepita per alcuni tra i più celebrati interpreti attivi al Teatro di San Carlo durante la gestione imperiale di Domenico Barbaja: Giovanni David, Andrea Nozzari e Isabella Colbran, con Rosmunda Pisaroni e Giuseppe Ciccimarra. Risultato non da poco, per un’edizione della kermesse, la 39ª, che in un sol colpo festeggia e celebra il 150° anniversario della morte di Gioachino Rossini e il bicentenario di due dei tre titoli composti nel 1818, Ricciardo e Zoraide e Adina.
Merito primo dell’impresa va ascritto alla ragionata direzione di Giacomo Sagripanti che – al netto di qualche lievissima sfocatura solistica nell’Andante grazioso della Sinfonia e di un brevissimo vuoto di memoria della protagonista femminile – imposta la sua visione dell’opera lungo due assi. Il primo indaga sulla grandeur orientale dell’opera e, fondatamente, la rintraccia in una delle principali novità della scrittura rossiniana, mai sperimenta dal compositore prima di quest’opera, e cioè l’uso di una «banda sul palco» – in realtà fuori scena – che inquadra i primi due numeri dell’opera, la Sinfonia e Introduzione, e che ne connota il carattere marziale, fino alla sospirata risoluzione dell’intreccio. Ora la presenza di queste marce militari, che si odono «molto lontano» già prima che si alzi il sipario, è la chiave di volta per una spazializzazione dell’orizzonte sonoro che diventa marca identificativa dell’opera. Nel più ampio contesto di un’ambientazione “affricana”, in cui s’incontrano e si scontrano principi “asiani” e crociati in cerca d’avventura, si instaura così un fitto dialogo tra la scena e l’altrove, un fuori campo che si avvale non solo del saldo coordinamento dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, ma anche del Coro del Teatro Ventidio Bassi, magistralmente diretto da Giovanni Farina: così per il Coro di Donzelle fuori scena che consola Zoraide per le paventate nozze con Agorante, che specularmente si ripete nel Coretto e Strofette del second’atto, quando la principessa versa in cattività, riottosa al nodo coniugale. Guerra, incontri e scontri diventano segno distintivo di un Mediterraneo, efficacemente visualizzato sulla scena, che diventa luogo di sospiri ed echi, minacce e sfide. Ma c’è una seconda dimensione, contrastante con questa prima, che scaturisce dalla concertazione di Sagripanti: una tinta affettuosa, chiaroscurata, soffusa, che accompagna la descrizione del sentimento che lega Ricciardo a Zoraide. Qui il direttore gioca per sottrazione e, abilissimo nell’accompagnare i cantanti, riduce il suono fino a renderlo impalpabile, nuvola di benevola tenerezza che benigna si stende sui protagonisti. La sortita di Ricciardo – peraltro accompagnata da uno dei momenti più suggestivi dello spettacolo: con l’arrivo della nave del protagonista circonfusa dal morbido accavallarsi di due veli azzurrini, mentre sullo sfondo si distaccano alcuni profili femminili incorniciati da un parasole bianco nero o scarlatto, alla maniera delle pitture di Goya o Fragonard – è momento di rara suggestione, nóstos quasi metafisico che idealmente si ricollega agli sbarchi di Tancredi e Selim, se non alla classicità più aulica e alta, luogo di incontro tra culture diverse e conciliabili. E il senso di questa traiettoria si coglie – com’è giusto che sia – nel primo Cantabile del Finale primo in forma di canone, “Cessi omai quel tuo rigore”, in cui i segreti palpiti del cuore germogliano e si propagano da Agorante a Ricciardo, con il commento di Ernesto, fino a fiorire sulla parola “amor”, che suggella l’ultima entrata di Zoraide. È questo il senso ultimo dello “gliuommero” della Scuola napoletana, il nodo che inestricabilmente s’intreccia nel Finale del primo atto: lì dove si condensa l’intera drammaturgia dell’opera, dimidiata tra Eros e Marte, rattenuto lirismo e spavalda marzialità, autentica scuola di sentimenti di stringente intensità emotiva.
Su queste eccelse basi avrebbe potuto lavorare la regia di Marshall Pynkoski: che ha diviso il pubblico, in parte giustamente contrario a una concezione antiquaria dello spettacolo, nell’unica contestazione finale; in parte rassicurato da un’impostazione decisamente tradizionale, capace di raccontare la vicenda senza intoppi – ma anche, bisogna dirlo, senza idee. Rispetto al noiosissimo Lucio Silla scaligero del 2015, qui l’approccio archeologico ha almeno un paio di vantaggi: da un lato l’unitarietà di concezione dello spettacolo, che evita di disperdersi nei mille rivoli di un’azione ingarbugliata quanto poche; e dall’altro una visione decisamente più mossa, grazie alla presenza di inserti coreografici – dovuti alla mano squisitamente accademica di Jeannette Lajeunesse Zingg – che animano soprattutto i cori. Certo è difficile negare l’elevatissimo tasso glicemico di questi pas de cinq realizzati con il concorso di un delicato ensemble rigorosamente in tinte pastello, mimosa e pistacchio, ceruleo e rosa e arancio; ma è pur vero che, una volta abituati a queste presenze, risulta più gradevole sia la presenza di un manipolo di marinaretti-sbandieratori, per l’arrivo di Ricciardo, sia della battaglia finale, che risulta quasi avvincente al Finale. Più interessante è la ricerca condotta da Gerard Gauci, che ricostruisce un impianto scenico di stampo primottocentesco, con tanto di principale, quinte laterali e fondale, quasi fosse un tributo alle sontuose architetture di un Sanquirico; e le arricchisce dell’ocra e del ruggine, dell’arancio e dell’azzurro, scegliendo le sfumature che Eugène Delacroix avrebbe scelto, pochi anni più tardi, per illustrare le sue impressioni di viaggio dal Maghreb. Non ci fosse la caduta – ma sarebbe meglio dire il precipizio – di gusto di un fondale con tanto di luna piena per il Cantabile del Duetto tra Ricciardo e Zoraide, nel secondo atto, o il finale con cielo stellato, degno di una nota marca di cioccolatini, se ne potrebbe apprezzare la coerenza, l’impatto, finanche l’ariosità dell’impostazione generale. Che opportunamente si sposa, peraltro, ai sontuosi costumi elaborati da Michael Gianfrancesco, d’impronta settecentesca, più stilizzati quelli maschili, improntati al modello della robe à la française (con tanto di pièce d’estomac sontuosamente ricamate) quelli femminili. Il risultato è meno peregrino di quanto non sembri: perché, d’un tratto, la capitale della Nubia, in cui è ambientata l’azione, diventa l’ennesima variante di quell’Oriente illuminato e illuminista che aveva trionfato alla fine del Settecento, e che aveva preso le mosse da quell’inno alla tolleranza interreligiosa che era stato Nathan il saggio di Lessing. Non a caso l’africano Agorante, più che tiranno, si mostra cavalleresco nei modi e nei comportamenti, mentre sotterfugi e tranelli vengono orditi dal cattolicissimo Ricciardo, qui supportato dall’amico ambasciatore Ernesto che – forse per rendere più evidente uno scontro tra religioni appena abbozzato – qui incongruamente indossa la porpora cardinalizia. È, insomma, uno spettacolo complessivamente gradevole, ma dal quale invano ci si aspetta quell’approfondimento – storico, critico e performativo – che oggi si richiede a una moderna regia d’opera.
Ed è invero un grande peccato, perché sul palcoscenico si muove una compagnia di canto di notevole pregio, con punte di assoluta eccellenza. Ad aprire la galleria è l’Agorante di Sergey Romanovsky, certo più convincente rispetto al suo Néoclès dell’anno passato. La scrittura sostanzialmente centrale, bari-tenorile del ruolo, meglio si attaglia a un timbro non particolarmente idiomatico come a una sostanziale correttezza nel canto di agilità, dispiegata sin dalla Cavatina di sortita. E benché l’artista guadagni in sicurezza durante tutto lo spettacolo, risultando convincente nel Duetto con Ricciardo del secondo atto, permane la sensazione che non si tratti di un fuoriclasse, capace di rendere giustizia a un ruolo che può assumere ben altro smalto, tempra e vigore. Più interessante è la Zoraide di Pretty Yende, che opportunamente adatta un ruolo scritto per Isabella Colbran alla sua vocalità sopranile, più incline al virtuosismo leggero. Ha dalla sua un’accorta presenza scenica, una squisita musicalità e la capacità di valorizzare le mille screziature di una voce che si mostra sicura nei sovracuti – fino ai bellissimi picchiettati del Finale primo – e sa fondersi con le altre: per questo risulta particolarmente riuscita la sua partecipazione al Duetto con Zomira e al successivo Terzetto con Agorante, nel primo atto, in cui perfettamente si amalgama alle altre voci. Chi infiamma la platea dell’Adriatic Arena e consegna un’autentica lezione di belcanto rossiniano è, però, lo strepitoso Ricciardo di Juan Diego Flórez, che da solo vale il pellegrinaggio fino a Pesaro: a piedi, se non in ginocchio. È già trascorsa un’ora dall’inizio dello spettacolo quando compare il suo personaggio: e basta arrivare alla sua mirabile Cavatina di sortita, “S’ella mi è ognor fedele”, per apprezzare la proverbiale facilità di emissione, un senso della frase, dei respiri, del fraseggio che tuttora lo incoronano come il miglior interprete rossiniano vivente. Per tacere della cabaletta: che canta dalla passerella a stretto contatto con il pubblico, dispiegando una nettezza, una rotondità, una sicurezza nelle fioriture semplicemente stratosferica. È una prova in crescendo, la sua, e raggiunge il culmine nello splendido Duetto con Zoraide del secondo atto: è in autentico stato di grazia quando attacca “Fu amor propizio” a fior di labbra, seguito dal gioco d’eco di Zoraide, dichiarazione d’amore che è difficile immaginare più suadente e suasiva.
Di notevole interesse è altresì la distribuzione dei ruoli secondari, a cominciare dal compito Zamorre di Ruzil Gatin, con l’ancora acerba Fatima di Sofia Mchedlishvili e la trepida Elmira di Martiniana Antonie. Meritano un più diffuso cenno, tuttavia, gli altri tre interpreti, a partire dall’Ircano di Nicola Ulivieri, autorevole e tonante su alcuni tratti di ruvidezza, che certo si gioverebbe di un gioco scenico meno stereotipato. Notevolissima è la Zomira di Victoria Yarovaya, che forse non ha le potenzialità contraltili della Pisaroni; è interprete di forte temperamento e cesella in maniera appropriata la sua Aria, “Più non sente quest’alma dolente”, conferendo travolgente impatto teatrale al suo personaggio, a metà strada tra la disprezzata Ottavia monteverdiana e la più vendicativa Astrifiammante mozartiana. E si concluda con la vera sorpresa della serata, l’ottimo Ernesto di Xabier Anduaga, giovanissimo ma già timbratissimo tenore dallo squillo adamantino, che qui diventa inatteso deus ex machina nel vaudeville conclusivo: pronto a imprimere un suggello di sontuosa regalità vocale a un sogno d’Oriente riconciliato e conciliante. E se infine «Nuota l’alma nel piacer» non si potrebbe immaginare festa maggiore, e incontrastata.
39° Rossini Opera Festival
RICCIARDO E ZORAIDE
Dramma serio per musica in due atti di Francesco Berio di Salsa
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Federico Agostinelli e Gabriele Gravagna
Agorante Sergey Romanovsky
Zoraide Pretty Yende
Ricciardo Juan Diego Flórez
Ircano Nicola Ulivieri
Zomira Victoria Yarovaya
Ernesto Xabier Anduaga
Fatima Sofia Mchedlishvili
Elmira Martiniana Antonie
Zamorre Ruzil Gatin
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Giacomo Sagripanti
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia Marshall Pynkoski
Scene Gerard Gauci
Costumi Michael Gianfrancesco
Luci Michelle Ramsay
Coreografie Jeannette Lajeunesse Zingg
Nuova produzione
Pesaro, Adriatic Arena, 11 agosto 2018