Esistono vari criteri per impostare un recital di canto ma due sembrano prioritari: da un lato l’esigenza di mettere in luce le peculiarità vocali e interpretative del solista; e dall’altro quella di elaborare un percorso storico, che in alcuni casi – come quello di cui si dirà tra breve – può o deve prevedere un tributo a un compositore. Risponde a entrambi questi parametri il concerto con cui Lisette Oropesa ha ottenuto la sua definitiva consacrazione al Rossini Opera Festival, a neanche quarantott’ore dal vivo riscontro ottenuto dalla sua Adina, sempre sulle tavole del Teatro Rossini di Pesaro. Si è trattato, peraltro, di un recital sontuosamente impaginato, visto che l’artista statunitense poteva contare sulla presenza orchestrale della Filarmonica Gioachino Rossini, affidata alle gagliarde cure direttoriali di Christopher Franklin. Dato per scontato, dunque, un gran finale dedicato al genius loci, il percorso immaginato dalla Oropesa era stato elaborato in maniera quanto mai accorta, per affondare nelle radici del belcanto con una pagina mozartiana, trascorrere quindi a un brano giovanile verdiano e approdare infine al repertorio francese, passando per il tramite di Meyerbeer. Tutto questo per valorizzare ed esaltare le caratteristiche di una voce in piena maturazione ed espansione, particolarmente versata nell’ambito più squisitamente leggero, ma che già si afferma – per colore, rotondità ed espansione – in quello lirico, nel quale ha raggiunto i risultati più lusinghieri della serata. Ma procediamo con ordine.
L’apertura viene assicurata dal Mozart serio di Idomeneo, con l’ampia sezione introduttiva che dall’articolata Ouverture, composta per celebrare l’orchestra di Mannheim, passa a descrivere i tormenti di Ilia, figlia di Priamo incautamente innamorata del nemico. “Quando avran fine omai” conta tra i recitativi più idiomatici composti da Mozart, proprio perché, in apertura di sipario, efficacemente sintetizza il contrasto d’affetti – tra fedeltà alla ragion di Stato e impellenza delle ragioni del cuore – tipica dell’estetica metastasiana. La Oropesa lo scolpisce con cura del dettaglio, per poi scioglierlo nella grande aria “Padre, germani, addio!” in cui mostra una sicurezza che scaturisce dal materiale, fin troppo dovizioso, con cui la affronta. La frizzante ouverture di Un giorno di regno di Giuseppe Verdi fa da transizione a un’altra pagina pregevole, di rarissima esecuzione, l’inizio del secondo atto dei Masnadieri. Scritto per quell’autentico usignolo che fu Jenny Lind, il ruolo di Amalia trova qui il suo momento più complesso, anche per via dello snodo psicologico che illustra: dal rimpianto dell’amato Carlo, creduto morto, trascolora infatti all’espressione di una gioia estrema, nell’esplosiva cabaletta, quando le viene comunicato che questi – come il padre – in realtà è vivo. E qui letteralmente esplode il talento dell’artista, verdiana della miglior pasta, perché se nell’aria “Tu del mio Carlo al seno” dispiega la perfezione di un legato che sembra quasi voler avvolgere la melodia tra le spire di un amore unicamente vagheggiato, poi si abbandona all’esultanza di “Carlo vive!” con autentico gusto flamboyant, mirabilmente sostenuto dalla preziosità delle volatine e coronato da un trillo in crescendo mozzafiato. Sciolto il ghiaccio, da qui in poi l’artista inanella un trionfo dopo l’altro, dando prova di una personalità di alto profilo.
La pimpante sinfonia militare da Margherita d’Anjou di Giacomo Meyerbeer, in cui emerge il piglio pompier che Franklin imprime alla compagine orchestrale, è l’accorta transizione verso un’altra, celebrata aria meyerbeeriana, la cavatine d’Isabelle “Robert, toi que j’aime” che suggella il quarto atto di Robert le Diable, avviando la conversione del diabolico protagonista. Serve alla cantante per mettere in luce un altro aspetto della sua vocalità, quello più lirico. È un momento di intimo raccoglimento, in cui la dichiarazione di amore – di più: di autentica dedizione, ai limiti del martirio – poggia sull’espansione melodica di quella richiesta di “Grâce!” che esalta la bellezza di un timbro ricco di armonici come di intime risonanze: manca, naturalmente, la stretta con Robert, ma questa «voix touchante» si rivela autentico balsamo per l’anima, oltre che per il cuore. Da Meyerbeer a Bizet il passo è brevissimo, se subentra il récit et cavatine di Léïla “Comme autrefois, dans la nuit sombre”, umbratile incipit del secondo atto dei Pêcheurs de perles. In questo brano non c’è – né deve esserci – slancio appassionato, ma una dimensione quasi cameristica del canto a fior di labbra, a immagine di quella solitudine notturna sublimata in acuti improvvisamente, miracolosamente smorzati in pianissimo. E qui s’innesta l’autentico colpo d’ala della serata, la vocalise “Le rossignol et la rose” per l’incompiuta Parysatis di Camille Saint-Saëns, che è autentica esperienza sensoriale intessuta di eterei pianissimo, con aeree, impalpabili messe di voce: da brivido.
Arriva così il momento dell’attesissimo omaggio a Rossini. È il momento di maggior spolvero anche per la compagine orchestrale, che si cimenta con sicurezza con la sinfonia da Tancredi, scelta quale preziosa introduzione alla cavatina di Amenaide “Come dolce all’alma mia”. È un Rossini squisitamente mediterraneo, quello che propone la Oropesa, per la morbida rotondità del piglio, la sicurezza con cui affronta le fioriture, la giovanile baldanza con cui tratteggia il ruolo. Sono caratteristiche, queste, che la accomunano alla Fiorilla del Turco in Italia, di cui presenta la temibile aria “Squallida veste, e bruna”, rondò che – per l’impervia scrittura d’agilità – è da ascrivere alla scrittura seria, nonostante il genere dell’opera cui appartiene. È un brano che ben si attaglia alla drammaticità, all’impatto teatrale che la cantante le imprime, evocando atmosfere cangianti grazie alla diversità di climi espressivi delle variazioni, spavaldamente padroneggiate lungo tutta la gamma.
Fiori e applausi sono il viatico indispensabile per l’ultima parte del recital, quella, attesissima, dei bis: che sono due, ed entrambi semplicemente eccezionali. Il primo è “Je veux vivre”, smagliante valzer da Roméo et Juliette di Gounod, in cui la leggerezza della cavata magnificamente si sposa a un morbido languore, all’arte del chiaroscuro, del rubato e dei rallentando, fino a un finale sempre più vorticoso, funambolico, esaltante espressione di una sicurezza giovanile imbattibile e coraggiosamente vittoriosa negli stratosferici trilli conclusivi. E gli applausi non fanno in tempo a fermarsi che già attacca il finale I della Traviata di Giuseppe Verdi. E qui la Oropesa delinea una Violetta assetata di vita, inarrestabile nella foga con cui affronta trilli, volate e ascese al registro sovracuto, appena venata di inquietudine quando riflette su quell’”Amore” che istintivamente respinge per trascorrere «di gioia in gioia» nei vortici del piacere. La franchezza e la freschezza del materiale, la superiore capacità di emozionare e l’ottimo dominio tecnico vanno al di là – o forse al di qua – della lezione callassiana: ricordano la bellezza di una Moffo come l’empito rigoglioso della miglior Caballé. O, forse, semplicemente di Lisette Oropesa: che a Pesaro si inscrive nel firmamento delle certezze del repertorio lirico e serenamente vi brilla all’ombra dell’“astro maggior” di Gioachino Rossini. Il quale, dal canto suo, non poteva sperare festa migliore per il suo anniversario: mentre noi anche di questo – e non solo – per quest’anno gli siamo debitori, riconoscenti e grati.
39° Rossini Opera Festival
LISETTE OROPESA in concerto
Musiche di W.A. Mozart, G. Verdi, G. Meyerbeer,
G. Bizet, C. Saint-Saëns, G. Rossini
Filarmonica Gioachino Rossini
Direttore Christopher Franklin
Pesaro, Teatro Rossini, 14 agosto 2018