«La verità è che una tradizione esecutiva praticamente monocorde ha omogeneizzato e livellato l’interpretazione di questa partitura su un unico registro, quello dell’opera buffa esemplare e assoluta. Dopo due secoli sarebbe giusto rimuovere Il barbiere da questo limitato stereotipo per riportarlo nell’ambito più feriale ma più pertinente di multiforme commedia di carattere. In altre parole: di recuperare a questo smagliante capolavoro la sua complessità originale.» Con questo indirizzo di augurio Gianfranco Mariotti, Presidente onorario e guida morale del Rossini Opera Festival, ha salutato la nuova produzione del Barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini, appositamente concepita per le celebrazioni del 150° anniversario della morte del musicista. E, in effetti, la proposta del titolo più celebre e rappresentato dell’intero catalogo rossiniano, tardivamente arrivato nella storia del Festival nel 1992, si giustifica solo immaginando la speciale attenzione riservata allo spettacolo.
Il primo elemento di curiosità era rappresentato dalla messinscena, interamente firmata da Pier Luigi Pizzi: che di Rossini è interprete privilegiato, ne ha allestito almeno venti titoli, ormai divenuti leggendari, ma mai si era accostato al capolavoro. Giunta a sorpresa durante le fortunatissime repliche della Pietra del paragone, ripresa a Pesaro l’anno passato, la notizia di un debutto simile non poteva che suscitare interesse e unanimi attenzioni. Il risultato, pur altissimo, ha tuttavia in parte deluso le aspettative, perché se rappresenta l’ennesima conferma di un magistero scenico ormai inossidabile, nulla aggiunge di nuovo al blasonato curriculum dell’artista. È tersa, immacolata e atemporale la Siviglia impaginata da Pizzi: ariosa, luminosa, interamente giocata sul contrasto tra il nitore del bianco delle scene e il nero dei costumi, che contribuiscono a tratteggiare svelte silhouettes su un orizzonte lattiginoso e bidimensionale. Su questo sfondo, con grande arte pittorica, sovrappone poche macchie di colore, morbide pennellate che si stagliano sull’assieme: lo scarlatto dell’ampio mantello del Conte d’Almaviva, le sfumature del turchese e del verde della liliale, vaporosa Rosina, fino all’ametista di Berta e – con ironico spregio delle convenzioni teatrali – al viola riservato a Bartolo e Fiorello, quando questi accompagna Don Alonso. Di più: la scenografia nel primo atto sfrutta tutta la lunghezza del palcoscenico dell’Adriatic Arena, per ridursi poi a uno spazio angusto e fin quasi claustrofobico nel secondo atto, finché una pallida luce rosata, dosata da Massimo Gasparon, schiude prospettive di trepida felicità sulla coppia dei novelli sposi. Più convenzionale è il gioco scenico, sempre misuratissimo, efficace e teatrale, con poche, ma sapide trovate – come un Don Alonso improvvisamente rimpicciolito, costretto a camminare sulle ginocchia – volte a integrare una tradizione interpretativa accolta con misura e senso dell’equilibrio. Fin troppo insistito, l’uso della passerella che circonda la scena assicura uno stretto contatto con l’uditorio, ma insiste sulla stanca ripetizione di figure che alla lunga risultano retoriche. Si tratta, insomma, di una dimostrazione di altissimo artigianato, ma che solo parzialmente raccoglie la sfida lanciata dalla riuscitissima, indimenticabile Pietra del paragone che l’aveva preceduta.
Ma la cifra che sembra identificare l’intero spettacolo è una spiccata teatralità: mai sopra le righe, anzi fondata su recitativi – integralmente restituiti – che rendono finalmente giustizia a una drammaturgia proteiforme e articolata, a una successione di eventi minutamente calcolata e pienamente comprensibile, resi perfettamente intelligibili da una compagnia che ne recupera l’intera gamma espressiva grazie all’impagabile supporto dell’accompagnamento al fortepiano di Richard Barker, continuista di assoluto prestigio per la mirabolante inventiva, la strepitosa creatività e, soprattutto, l’irresistibile ironia con cui li delinea: una trama in controluce che fa risaltare e brillare la caratura dei personaggi. Non si può affermare lo stesso, invece, della resa dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, francamente irriconoscibile rispetto alla prova di due giorni prima. Sul podio, Yves Abel poco convince già dalla Sinfonia, tagliata con l’accetta: latita la ricerca di omogeneità di suono (e tout court del suono) tra le varie famiglie orchestrali, con i fiati, gli ottoni e le percussioni che sistematicamente “bucano” l’assieme (quanta impertinenza degli insopportabili ottavini nel Quintetto!); e quando arriva il momento dei proverbiali crescendo tutto viene risolto con fragorosi clangori che sommergono le voci. All’attivo di una concertazione plumbea e greve, come di rado è dato ascoltare, si devono invece menzionare una serie di divertenti espedienti vocali che sembrano discendere dal Sestetto della Cenerentola di Abbado: ritroviamo così un Bartolo dal rotacismo tanto esotico quanto esilarante, quando viene imitato da Rosina; le sibilanti di Don Alonso, che si trasforma in una sorta di pericoloso serpente a sonagli per entrare nelle grazie del tutore; e infine il balbettio di Basilio, che comincia a tartagliare quando la situazione si complica. Sono accorgimenti che opportunamente variano il tessuto vocale e conferiscono un’identità facilmente riconoscibile – e teatralmente godibile – ai personaggi. Più accorta la presenza del Coro maschile del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, attento alle sfumature dinamiche nella direzione di Giovanni Farina.
Alterna è anche la composizione del cast vocale, che rivela tuttavia notevoli cure anche nei ruoli secondari: a cominciare dall’indaffarato Ambrogio di Armando De Ceccon, fino al mercuriale Fiorello di William Corrò, che nei Finali d’atto assume anche i panni dell’inflessibile Ufficiale. Merita una menzione speciale, invece, il talento dell’intramontabile Berta di Elena Zilio: sarebbe ingeneroso sottolineare le mende di una voce, piegata a fini espressivi per creare un cammeo di rara affettuosità, nell’atteggiamento materno verso Rosina; e di divertito compiacimento, durante l’Aria, banco di prova risolto con tale pertinenza da risultare composizione artistica di elevato profilo. Semplicemente inarrivabili sono i due bassi: forse Pietro Spagnoli ha colore troppo chiaro per il ruolo di Bartolo, ma ne incarna i tratti con inarrivabile musicalità, gusto dell’interpretazione scenica (di straordinaria fluidità il passaggio al falsetto negli accenni all’aria del castrato Caffarelli), assoluta padronanza della scrittura musicale. Di alto rango è pure il Basilio di Michele Pertusi: perché opportunamente lo sottrae al macchiettismo che spesso lo connota e – fondandosi unicamente su una vocalità forse non più doviziosa ma perfettamente controllata – ne fa intrigante di rara autorevolezza, subdola, diabolica incarnazione di una potenza che tutto domina e governa. La sua Aria di sortita pondera così la ricerca dell’effetto e ottiene un esito dirompente al momento dell’esplosione finale: sigla una lezione interpretativa che andrà a lungo meditata per l’essenzialità dei mezzi e l’efficacia dei risultati dispiegati.
Nel terzetto dei protagonisti rimane un passo indietro la Rosina di Aya Wakizono, che pure appare sensibilmente migliorata rispetto alla Clarice dell’anno passato. Attacca “Una voce poco fa” con una cautela che progressivamente si scioglie, e progressivamente dispiega una coloratura di bel nitore, una giovanile, morbida freschezza e un’innata eleganza: doti che ne fanno una Rosina professionale e affidabile, ma ancora priva di quello smalto che si esige su una ribalta come quella pesarese. Eccellente è, per contro, il Figaro di Davide Luciano, che fornisce una prova di invidiabile maturità, grazie a una franchezza e una sicurezza di mezzi tali da assicurare un’interpretazione di assoluto rilievo. Voce timbratissima e forbita, magnificamente proiettata lungo l’ampia sala, attenta al gioco di accenti e a un fraseggio sempre pertinente e incalzante, incarna un Barbiere di sorgiva schiettezza, di pronta comunicativa e di contagiosa simpatia, motore di una vicenda condotta con eleganza e nobiltà: Figaro è un borghese ansioso di fare un salto di qualità per accedere al fianco dell’aristocrazia, grazie al potere del danaro guadagnato sul campo.
E infine Almaviva. Per il quale, forse, sarebbe stata auspicabile una piccola prova di coraggio, quale quella tanto auspicata da Mariotti nella sua presentazione dello spettacolo: perché qui e ora il ROF avrebbe potuto approfittare dell’occasione per proporre quell’autentica rivoluzione copernicana, da alcuni anni auspicata da recenti, autorevoli contributi musicologici come quello di Saverio Lamacchia. Difficile rinunciare, se non altro per ragioni di marketing, al titolo che una ricezione bicentenaria ha assegnato all’opera: ma questa sarebbe stata la circostanza più propizia per risalire alla versione originaria e riproporre non già Il barbiere di Siviglia, bensì Almaviva o sia L’inutile precauzione, restituendo rango protagonistico al Conte, in forza di un’autorevolezza che la partitura gli assicura dalla prima scena al rondò finale. Confermando il trionfale successo dell’anno passato, Maxim Mironov non brilla unicamente per la figura aitante, con cui disegna un Grande di Spagna altero e consapevole della propria condizione; né per la sottilissima, insinuante ironia con cui ne dissimula i tratti nei continui travestimenti, dalla Canzone fino all’agnizione finale. Il tenore russo ottiene tutto questo, infatti, non solo grazie ai cambi d’abito, ma soprattutto di registro espressivo: e dunque procede dall’aulica, tornita costruzione della frase musicale, con cui affronta la Serenata introduttiva; al tono intimamente affettuoso e cordiale, da autentico amoroso, con cui intona “Se il mio core saper voi bramate”; fino alla spavalderia – mai spacconeria – con cui diventa, più che soldato e ubriacone, sempre ufficiale e gentiluomo. E se, come si è già accennato, il suo Alonso è un capolavoro di grazia intelligente e spiritosa, “Cessa di più resistere” scatena un autentico tsunami di entusiasmo: per la sicurezza con cui snocciola le leggendarie, temibili roulades, perle di belcanto dalla precisione millimetrica, ardenti di passione ma sublimate da una superiore grandezza d’animo, capace di trionfare sulle avversità della vita. Dà vita, così, a un’eccellente sintesi del senso ultimo del belcanto rossiniano: fiamma che ravviva ed esalta, e splende nel fervore del giubilo generale.
39° Rossini Opera Festival
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Alberto Zedda
Il Conte d’Almaviva Maxim Mironov
Bartolo Pietro Spagnoli
Rosina Aya Wakizono
Figaro Davide Luciano
Basilio Michele Pertusi
Berta Elena Zilio
Fiorello/un ufficiale William Corrò
Ambrogio Armando De Ceccon
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Yves Abel
Maestro del coro Giovanni Farina
Fortepiano Richard Barker
Chitarra Eugenio Della Chiara
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Nuova produzione
Pesaro, Adriatic Arena, 13 agosto 2018