A come Adina. Ma A anche come Alice. Forse è partendo da questa semplice analogia che Rosetta Cucchi, chiamata ad allestire uno dei titoli più enigmatici del catalogo di Gioachino Rossini al Rossini Opera Festival di Pesaro, ha pensato bene di mescolare le carte in tavola. Novella Regina di cuori, provvede infatti a sorprendere il pubblico, mentre ancora si attarda in un’assolata serata estiva alle porte del Teatro Rossini, con l’arrivo di una bizzarra compagnia di viaggio, capitanata da un Cappellaio matto che guida tante Alice con valigie al seguito, pronte a invadere la sala. Nel foyer d’ingresso, frattanto, è in distribuzione una fantomatica rassegna stampa internazionale – con il “Corriere della Sera”, “Le Figaro” e il “Daily News” – in cui si annuncia Le Mariage secret o ancora The Unusual Marriage della Royal Couple, awaited in Pesaro. I dettagli della love story, ovviamente, saranno rivelati al pubblico in sala, che come sipario di scena si ritrova la gigantesca partecipazione di matrimonio tra Califo e Adina, la cui celebrazione si presume imminente.
Con questo spirito il velario si alza dunque su un giardino all’inglese popolato da una corte dei miracoli che attende ai preparativi: l’Introduzione è appannaggio di un inarrestabile andirivieni di giardinieri, alle prese con gli ultimi ritocchi alle sculture vegetali; di esilaranti guardie del corpo alla Blues Brothers, con tanto di coloratissime armi giocattolo; e ancora gli ottoni di una fanfara pronta a esibirsi sulla scena; e uno stuolo di cuochi, intenti a ultimare le decorazioni dell’imponente torta nuziale, che troneggia nel bel mezzo della scatola scenica. Tutti sono in fibrillazione, inclusa la coppia di sposi pronta a mettersi in posa sull’irraggiungibile sommità del monumentale wedding cake: tre piani di glassa bianca e azzurra, inespugnabile turris eburnea al pari della capricciosa protagonista.
Che tutto questo abbia qualcosa a che spartire con il clima espressivo della farsa, esito tra i più complessi della drammaturgia rossiniana, è naturalmente tutto da dimostrare. Composta nel 1818 su commissione di Gaetano Pezzana, contrabbassista del Teatro São Carlos di Lisbona, Adina rappresenta – come ha meticolosamente illustrato Fabrizio Della Seta, curatore dell’edizione critica eseguita sin dal 1999 – un patchwork di materiale solo in parte appositamente creato dal musicista, frutto di un lavoro che ricorda «quello della “bottega” di un pittore rinascimentale piuttosto che il solitario rovello dell’artista romantico.» Solo tre numeri musicali – i più importanti – sono interamente redatti dal Pesarese, che attende poi solo allo scheletro della Cavatina della protagonista, ricicla altro materiale dal preesistente Sigismondo e affida ad altri collaboratori un intero numero e i recitativi dell’opera. Non si pensi, tuttavia, a un lavoro frettoloso: ché Adina raccoglie l’esperienza non solo delle farse giovanili, composte per i palcoscenici veneziani dal 1810 al 1812, ma anche della grande stagione comica, approdata alle tinte sentimentali della Cenerentola, e della sperimentazione semiseria, che di fatto innerva la drammaturgia dell’opera. È dunque un materiale complesso, quello della partitura, perennemente in bilico tra i generi, in un territorio dai confini permeabili, comunicanti, porosi. Le rende giustizia la concertazione di Diego Matheuz, alla guida della pimpante, baldanzosa Orchestra Sinfonica G. Rossini, perché fedelmente segue il trapasso di atmosfere, di temperie emotiva, sottolineando le finezze di una scrittura che spesso precipita in poetici affondi mozartiani, nell’aereo punteggiare di strumenti concertanti – come la splendida presenza del corno inglese per l’Aria di Selimo – fino al notturno mutar degli eventi nel Quartetto “Nel lasciarti, o caro albergo”, unico pezzo d’insieme che sembra virare l’azione verso il genere serio. Propone così una concertazione in punta di bacchetta, attenta alla trasparenza delle trame orchestrali, alla varietà di condotta dei recitativi, accompagnati al fortepiano con morbida flessibilità da Gianni Fabbrini, ai suggestivi scarti dinamici sottolineati dal Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini, che risponde all’accorta direzione di Mirca Rosciani.
Dieci minuti di applausi premiano un terzetto di protagonisti di ottimo livello, ben coadiuvato nei ruoli comprimariali: da Davide Giangregorio, che efficacemente si disimpegna nel breve impegno di Mustafà; e soprattutto da Matteo Macchioni, nei panni dell’eunuco Alì, che tratteggia con sicuro slancio tenorile ed efficacia di tratti un sapido cammeo quando – al termine della sua aria da sorbetto – riflette sulla «dolce natura» e il «volubil pensier» delle donne e si ritrova a indossare calze a rete e argentate scarpe con i tacchi… È il confidente dell’ottimo, raffinatissimo Califo impersonato da Vito Priante, eccellente buffo rossiniano che qui fornisce una prova di grande maturità e abilmente trascorre dalla scrittura comica dell’Introduzione, in cui sembra ripercorrere la sortita di Dandini, alla più ampia cantabilità della sua Aria, che si chiude sul perfetto congegno a orologeria dei sillabati d’ordinanza, fino all’emergere dei tratti più autenticamente tirannici del Quartetto che precede il Finale. Meno convince il Selimo di Levy Sekgapane, soprattutto a causa di un italiano ancora perfettibile e, soprattutto, di un timbro nasale, che ne mortifica le felici intenzioni. Si tratta infatti di un degno rappresentante di una generazione di giovanissimi artisti, che hanno assorbito i canoni della scrittura belcantista: anche il tenore sudafricano si rivela a proprio agio nell’impervia tessitura dell’Aria “Giusto ciel, che i dubbi miei”, autentico banco di prova di un virtuosismo che approda alle cime di sovracuti affrontati con sicurezza e spavaldo eroismo.
Autentica trionfatrice della serata è la deliziosa Adina di Lisette Oropesa, che coinvolge, commuove, seduce. È perfetta per l’irresistibile physique du rôle, valorizzato dagli adorabili costumi di Claudia Pernigotti, ma soprattutto per una vocalità che, perfettamente centrata per i passaggi più leggeri, valorizza le screziature di una pasta omogenea, malleabile, sontuosamente governata. Non è certo la sortita delle “Fragolette fortunate” a porle problemi, semmai permettendole di delineare un personaggio civettuolo e bamboleggiante ma con grazia; ma dove sorprende è nel finale, perché – già a partire dal Quartetto – perfettamente comprende l’improvviso viraggio verso un patetismo più pronunciato e poi – dopo l’agnizione – verso l’inattesa felicità finale. La Oropesa è perfettamente consapevole di questo scarto di registri e, con ironia ma senza calcare la mano, fa del suo risveglio dopo lo svenimento quasi una pagina preparatoria della Sonnambula. Tanto più le si attagliano le agilità di forza e la grammatica del Rossini serio quanto più risulta vittoriosa negli autentici fuochi d’artificio della rutilante, spettacolare cabaletta finale, in cui sormonta acrobazie d’ogni sorta – anche fisiche, mentre s’inerpica sulla torta – per esprimere una gioia ritrovata e condivisa.
Vissero tutti felici e contenti? Certo, a giudicare dall’entusiasmo con cui il pubblico accoglie il calar della tela, in cui il nome dello sposo viene immediatamente corretto nella partecipazione di matrimonio. Ed è innegabile non soltanto quanto l’impianto scenico di Tiziano Santi sia ingegnoso, ma soprattutto quanto la mano registica della Cucchi dissimuli, sotto le apparenze di questo gigantesco, oscuro oggetto del desiderio, un piccolo capolavoro di psicologia femminile. La torta è, infatti, il mondo in cui vive Adina: non è un caso se i tre piani ospitano la sauna del Califo, che vi prenderà un bagno non senza i conforti del fidato Alì, come la camera di Adina, condivisa con due Alice e una montagna di bagagli, tangibile segnale di un desiderio di fuga lungamente represso. Come il paese delle meraviglie di Alice, anche la torta-casa di bambola di Adina diventa metafora di un racconto di formazione immaginato con i colori sgargianti di un fumetto e ogni sorta di riferimento farsesco, pensato per far (sor)ridere il pubblico. Ma sono almeno due i problemi che pone questa animatissima messinscena. Il primo è l’equivoco intorno al termine farsa, che non era altro – nella tradizione italiana di primo Ottocento –che l’indicazione di un genere di teatro musicale, ben lontano dal significato che oggi gli si assegna: come l’opéra comique, che non era affatto comica, la farsa non intendeva far ridere a tutti i costi e dunque non esiste questa necessità, neanche in una produzione contemporanea. Ma il secondo, anche più grave, riguarda l’horror vacui che accompagna lo spettacolo, per cui tutti i numeri, nessuno escluso, debordano di una quantità di controscene talora azzeccate, molto spesso meno indicate, che distraggono, appesantiscono, sovraccaricano l’azione. Può risultare divertente che un cuoco butti la siringa con cui decora la torta dentro la tuba di un musicista, che gli sposi della torta diventino il doppio di Adina e del Califo, o ancora che l’ambiguità di sentimenti di Adina, che destina le fragolette appena raccolte al Califo mentre pensa all’amante ritenuto morto, venga evocata nel corso di una seduta spiritica, mentre i frutti cominciano a volteggiare nell’aria: ma tutto ciò – e molto altro ancora – sembra rispondere più a un nonsense tipicamente britannico che alle convenienze del teatro di Rossini. Esigente buongustaio, avrebbe gradito una scena occupata da una torta? Certo, a qualcuno piace caldo…
39° Rossini Opera Festival
ADINA
Farsa in un atto di Gherardo Bevilacqua Aldobrandini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini,
in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Fabrizio Della Seta
Califo Vito Priante
Adina Lisette Orospesa
Selimo Levy Sekgapane
Alì Matteo Macchioni
Mustafà Davide Giangregorio
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini
Direttore Diego Matheuz
Maestro del coro Mirca Rosciani
Fortepiano Gianni Fabbrini
Regia Rosetta Cucchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Claudia Pernigotti
Luci Daniele Naldi
Nuova coproduzione con Wexford Festival Opera
Pesaro, Teatro Rossini, 12 agosto 2018