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Parma, Teatro Regio – Macbeth

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Nato nel 2001, per un tempo troppo lungo il Festival Verdi ha mostrato un carattere opposto a quello del genio che voleva celebrare: creatura amorfa, ambigua e imprevedibile, capace di passare in modo repentino da tentazioni d’internazionalità a strizzate d’occhio strapaesane (leggi: straparmigiane), da innovativi slanci artistici al più pigro tradizionalismo, dal lusso ostentato a ranci magrissimi. Da un paio d’anni tale andazzo sembra superato, tanto che la rassegna può dirsi maggiorenne non solo per dati anagrafici. Molti sono gli ingredienti che hanno concorso allo scatto di qualità: un direttore artistico lungimirante, un format fisso, interpreti e registi di fama internazionale, spazi suggestivi (inutile ribadire che disporre del Teatro Farnese è un’autentica fortuna), interessanti eventi collaterali. L’elemento che però più di ogni altro ha nobilitato la kermesse è il suo nuovo imprinting musicologico. Come altri festival insegnano (senza andare troppo lontano, basta guardare al Rossini di Pesaro), quando teatro e accademia si mettono a dialogare i frutti artistici diventano succulenti. Quest’anno, e per la prima volta, tutte le opere del Festival Verdi vengono eseguite utilizzando edizioni critiche delle partiture. Il che non deve essere percepito (sia detto a scanso di equivoci) come una rincorsa alla chimera dell’autenticità d’autore, bensì – e non è certo poco – come l’adozione di utensili di lavoro autorevoli coi quali operare scelte interpretative consapevoli.

L’inaugurazione spetta a un titolo pieno di fascino come Macbeth. O, sarebbe meglio dire, il primo Macbeth, quello del 1847, precedente alla revisione parigina del 1865 che si è soliti ascoltare. Una proposta piuttosto controcorrente, dunque, che non è velleità archeologica, ma operazione culturale doverosa in un àmbito festivaliero, e appetitosa per ogni appassionato. La versione del 1847 è certo meno raffinata rispetto a quella parigina, ma più coesa a livello stilistico e maschia sotto l’aspetto drammaturgico. Ci mostra un Verdi sperimentale, che si confronta con inediti ingredienti fantastico-orrorifici, con un occhio ben puntato al modello del grand opéra meyerbeeriano che piaceva al pubblico fiorentino primo destinatario dell’opera, e l’altro rivolto risolutamente a quell’espressivismo grottesco del teatro scespiriano che tanto affascinava gli artisti romantici.
Proprio la componente teatrale dell’opera era al centro delle preoccupazioni di Verdi. Sono ben note le lettere che egli scrisse a Felice Varesi, primo interprete del ruolo eponimo, per raccomandargli di badare anzitutto alle parole, ché la musica «vien da sé». Di queste consegne s’è impregnato Luca Salsi. Acclamato in giro per il mondo, il baritono iperverdiano adopera le sue ben note caratteristiche vocali – il timbro di straordinaria corposità, specie nelle regioni medio-gravi, il volume prepotente, il fraseggiare intenso – per dipingere un Macbeth tragico, che non esita a piegare la voce a effetti espressivi parossistici per mostrare il nucleo pulsante di ogni situazione drammatica. Efficacissime le sue espressioni deliranti nella scena del banchetto; di lirismo straziante l’aria “Pietà, rispetto, amore”. Un’interpretazione di riferimento, la sua: e ciò basta. Come per Macbeth, anche per la sua temibile metà Verdi aveva indicato una precisa linea interpretativa: Lady doveva essere «brutta e cattiva» e aver voce «aspra, soffocata, cupa». La prova di Anna Pirozzi si distingue anzitutto per il perfetto controllo dell’emissione, la grande pulizia del fraseggio, la capacità di padroneggiare i virtuosismi spinti tipici dei soprani del giovane Verdi. Le prescrizioni autoriali, insomma, non sono granché seguite: il che, di per sé, non è un male. In alcuni momenti, tuttavia, si vorrebbe una maggior caratterizzazione drammatica: la componente luciferina del ruolo di Lady stenta ad emergere, ed alcune frasi cruciali (come la terribile domanda “E un uomo voi siete?” indirizzata al marito inerte) passano in sordina. Attentissimo alle ragioni della parola è Michele Pertusi. Con voce che ha mantenuto potenza e flessibilità abituali, il basso parmigiano scolpisce un Banco imponente, soprattutto apprezzabile per l’espressività e la precisione straordinarie del fraseggio. Certo, a tratti il personaggio si presterebbe a mostrare lineamenti meno regali e più arrovellati (come nell’aria del secondo atto), ma la cifra interpretativa è chiaramente delineata, e perseguita in modo stringente. Antonio Poli è un Macduff volenteroso, dalla voce ben timbrata benché non voluminosissima, che si fa trovare pronto nella convenzionale romanza del terzo atto. Le parti di contorno risultano nel complesso adeguate, ma è soprattutto il Coro del Regio (istruito da Martino Faggiani) che merita una menzione d’onore. Ben amalgamate le parte maschili, espressive e calibratissime quelle femminili, chiamate a incarnare quelle streghe che (Verdi docet) fungono da terzo protagonista dell’opera. Piace la direzione di Philippe Auguin, che offre una lettura a pennellate fini, ma assai coesa: il dialogo fra le singole sezioni orchestrali è ben curato (anche se i legni della Filarmonica Toscanini non sono sempre irreprensibili), l’incedere deciso, le dinamiche espressive, la quadra col palcoscenico assicurata. Anche quelle pagine dell’orchestrazione che spesso si sentono restituite in modo arruffato (laddove fa capolino la banda, per esempio) sono suonate con eleganza.

Sulla carta, uno degli ingredienti vincenti della produzione doveva essere il nome di Daniele Abbado. Il regista punta su un allestimento composito, giocato sui forti contrasti. Per i primi due atti lo spazio scenico è di una cupezza opprimente: i personaggi si muovono in una scatola delimitata da enormi teli plastici sui quali vengono proiettate luci inquietanti a simulare pareti metalliche, gli arredi scenici sono ridotti all’osso, una pioggerella insistente occhieggia alle tristi brume d’oltremanica. Terzo e quarto atto si caratterizzano invece per colori accesi, immagini allusive, abbagli repentini: le streghe si muovono in laide scene carnascialesche, gli abiti gualciti che indossano gli scozzesi pronunciando “Patria oppressa” portano immediato alla memoria il celeberrimo coro di Nabucco, la luce accecante che illumina il duello finale fra Macbeth e Macduff fa sobbalzare sulla poltrona. Alcune soluzioni sono parse azzeccatissime, altre un po’ inflazionate, ma, nel complesso, quello di cui s’è più avvertita la mancanza è una cifra concettuale e visiva chiaramente definita.
Le dure contestazioni indirizzate alla regia al calar del palcoscenico non hanno incrinato più di tanto la riuscita di uno spettacolo di valore, accolto con applausi generosissimi.

Teatro Regio – Festival Verdi 2018
MACBETH
Melodramma in quattro parti su libretto di Francesco Maria Piave,
Musica di Giuseppe Verdi
Versione 1847, edizione critica a cura di David Lawton,
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano

Macbeth Luca Salsi
Lady Macbeth Anna Pirozzi
Banco Michele Pertusi
Macduff Antonio Poli
Malcolm Matteo Mezzaro
Il medico Gabriele Ribis
La dama di Lady Macbeth Alexandra Zabala
Sicario Giovanni Bellavia
Domestico Giovanni Bellavia
Prima apparizione Giovanni Bellavia
Seconda apparizione Adelaide Devanari
Terza apparizione Adelaide Devanari

Filarmonica Arturo Toscanini
Orchestra Giovanile della Via Emilia
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Philippe Auguin
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Daniele Abbado
Regista collaboratore Boris Stetka
Costumi Carla Teti
Luci Angelo Linzalata
Movimenti coreografici Simona Bucci
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
Parma, 27 Settembre 2018

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