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Parma, Teatro Farnese – Le Trouvère

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Uno spettacolo divisivo. C’è chi parla di uno sguardo assolutamente inedito e quindi di una poesia ineffabile su un capolavoro amatissimo dai melomani. E chi invece denuncia la stanca ripetizione di moduli registici sostanzialmente uguali a se stessi da decenni, che nel caso specifico generano un senso di noia. Pubblico – e critica – spaccati a metà sulla nuova produzione a cura di Robert Wilson di Le Trouvère di Giuseppe Verdi in cartellone al Festival che Parma dedica al suo figlio più illustre. Come noto, Il trovatore tradotto in francese per le scene parigine nel 1857, è allestito sul palco del magnifico Teatro Farnese nel Palazzo della Pilotta, luogo scelto dalla direzione artistica del Festival per le sperimentazioni: ricordiamo la Giovanna d’Arco di Peter Greenaway di due anni fa e, soprattutto, lo sconvolgente Stiffelio di Grahm Vick dello scorso anno. Questa volta, tuttavia, la sperimentazione è tutto sommato solo parziale. Perché Wilson ha una cifra stilistica molo personale e molto chiara – quindi di fatto nota a pubblico e critica – che applica anche a questo titolo verdiano. La cosa semmai che colpisce è proprio la scelta del titolo, ovvero quello che – in francese o in italiano, qui è quasi del tutto indifferente – nella mente e soprattutto nel cuore degli appassionati è “il” melodramma per eccellenza nella storia dell’opera italiana (Barilli docet).

Che fa dunque Robert Wilson con Il trovatore? Coerentemente con la sua poetica, decide di raffreddare i furori e le passioni che divampano possenti dallo spartito e dal libretto per consegnare all’ascolto del pubblico una sorta di opera oratorio nella quale tutto è controllatissimo, pochi e rigidi i movimenti, statica la scena, fredde le luci. Il paradosso di una tale scelta è che davvero tutto si concentra sulla musica e l’esito è di sottolinearne sì una volta di più la soggiogante, irresistibile bellezza, ma pure di consentire agli ascoltatori di coglierne raffinatezze inedite. Quello di Manrique e Léonore, ma soprattutto quella del Conte di Luna e della zingara, è così un dramma tutto interiore, che brucia nell’animo alimentato da una struggente sofferenza che invece di esplodere in una gestualità melodrammatica, si stempera nel vitreo colore che avvolge la scena, nelle geometrie pure di pose e scenografie, in definitiva nel miracolo della musica e del canto. La dimensione lunare del capolavoro verdiano è preponderante in questo allestimento, dove la notte avvolge sempre i personaggi e il fuoco – altro elemento centrale del Trovatore – viene invece evocato con pochi, efficacissimi tocchi di luce. Il ricordo è un ulteriore elemento cardine del Trovatore su cui Wilson ha lavorato, evocando una Parma che non c’è più grazie a fotografie di inizio Novecento, talvolta proiettate sul fondo, e a personaggi che sembrano usciti da queste foto e che poco o nulla interagiscono con i protagonisti: un anziano barbuto un po’ ebete, una giunonica balia che ha qualcosa di inquietante, una madre con due figlie. Così come poco o nulla hanno a che vedere col dramma i ballerini nelle vesti di giocatori di boxe che, per oltre 25 minuti di balletto, si agitano sul palco. O forse è questa l’unica concessione che Wilson fa, non senza ironia, a chi si aspettava il “solito”, agonico Trovatore? Bellissima invece l’immagine in bianco e nero di uno scuro mare in burrasca che, proiettata a rallentatore, fa da contrappunto alla stupenda aria del Conte, sottolineando così una volta di più la centralità e il fascino di questo personaggio nell’economia del dramma.

Appare chiaro come Wilson abbia condiviso a fondo questa sua personalissima visione dell’opera con direttore e cantanti. Che, lo diciamo subito, nel complesso sono eccellenti. Roberto Abbado, alla guida dell’orchestra e del coro del Teatro Comunale di Bologna, si fa latore di una lettura analitica e raffinata del dettato musicale: le sonorità sono sempre giuste, sia nei pianissimi sussurrati che nelle esplosioni dei fortissimi, i tempi perfettamente calibrati, il fraseggio è duttile e attentissimo alle ragioni del canto, la morbidezza dello strumentale rifulge sempre. Persino le pause, prolungate in momenti topici dell’opera, sembrano obbedire a questa singolarissima logica registica.
Gli interpreti, dal canto loro, si adeguano compiutamente alla visione di Wilson, per cui non è possibile dire molto altro della dimensione puramente attorale. Roberta Mantegna è una Lèonore di voce magnifica: preziosa nel timbro, ricco di armonici, e ammaliante nell’interpretazione, sfumata e partecipe. Emozionate in particolare la sua aria nel quarto atto, rifinita con il cesello. Franco Vassallo è un Conte di Luna da manuale per la bellezza della voce, chiara, ampia e possente, e per l’espressività dell’interprete, nobilmente tormentato. Ieratica nella sua ossessiva fissità l’Azucena di Nino Surguladze, la cui voce ha bel colore e giusta consistenza per l’unica madre nel panorama dei grandi personaggi verdiani. Il Manrique di Giuseppe Gipali è un bandito byroniano nella morbidezza e rifinitura di un canto che non è mai stentoreo, ma sempre aulico e ispirato, con voce non amplissima ma omogenea e di bel timbro scuro. I do della “pira” ci sono ma – e questo è un altro paradosso di tale allestimento – sembrano passare quasi inosservati. Ottimi tutti gli altri, a cominciare dall’autorevole Fernand di Marco Spotti, per proseguire con Luca Casalin (Ruiz e un messaggero), Tonia Langella (Inès), Nicolo Donini (un vieux Bohémien). Eccellente anche la prestazione del coro del Comunale di Bologna, istruito da Andrea Faidutti.
Alla recita a cui ho assistito ci sono state contestazioni per il balletto e, in coda alla cabaletta “Bucher infame” (ossia “Di quella pira”), qualcuno tra il pubblico ha evocato il nome (sacro) di Mario Del Monaco. Il teatro d’opera è anche questo, ma fortunatamente, la bellezza dell’arte risiede nella possibilità di dire cose antiche con un linguaggio nuovo.

Teatro Farnese – Festival Verdi 2018
LE TROUVÈRE
Opera in quattro atti su libretto di Salvatore Cammarano
Traduzione francese di Émilien Pacini
Musica di Giuseppe Verdi
Edizione critica a cura di David Lawton, eseguita in prima assoluta.
The University of Chicago Press, Chicago e Casa Ricordi, Milano

Manrique, le Trouvère Giuseppe Gipali
Le Comte de Luna Franco Vassallo
Fernand Marco Spotti
Ruiz Luca Casalin
Léonore Roberta Mantegna
Azucena, la bohémienne Nino Surguladze
Inès Tonia Langella
Un bohémien Nicolò Donini
Un messager Luca Casalin

Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del coro Andrea Faidutti
Ideazione, regia, scene e luci Robert Wilson
Co-regia Nicola Panzer
Collaboratore alle scene Stephanie Engeln
Collaboratore alle luci Solomon Weisbard
Costumi Julia Von Leliwa
Make-Up Design Manu Halligan
Assistente alla regia Giovanni Firpo
Video design Tomek Jeziorski
Drammaturgia José Enrique Macián
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Bologna, Change Performing Arts
Parma, 7 ottobre 2018

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