Se non Vinci, ritenta. Ed è così che finalmente, per quanto non più nella versione scenica rimbalzata fra due diverse stagioni (2016/17, quindi 2017/18) con relativa destinazione su altrettanti, diversi palcoscenici (Teatrino di Corte del Palazzo Reale e Politeama), non più per le quattro e poi tre sere programmate a firma della regista Elena Barbalich, con scene e costumi di Tommaso Lagattolla, bensì in una sola data pomeridiana, in forma di concerto direttamente sulle assi blasonate del Teatro San Carlo e con qualche inevitabile ritocco al cast, il Siroe re di Persia composto sul fortunato libretto del Metastasio da Leonardo Vinci, è riuscito ad arrivare in porto fra gli applausi a Napoli, nell’occasione con partitura ricostruita e diretta da Antonio Florio.
Per la prima volta in tempi moderni e, in realtà, in prima assoluta nella città del Golfo poiché il complesso dramma serio in tre atti sul tema della rivalità tra fratelli per la successione al trono, posto in musica anche da un bel po’ di compositori di vaglia (da Sarro, Hasse, Porpora, a Piccinni, Perez, Sarti oltre che da Händel e Vivaldi), nell’abbinamento ai pentagrammi di uno fra i migliori esponenti della Scuola musicale napoletana di prima generazione quale il calabrese di Strongoli Leonardo Vinci, non aveva infatti sin qui alle spalle ancora alcun legame con i teatri partenopei. Ad ogni buon conto, il titolo è stato scelto per festeggiare i 281 anni dall’inaugurazione del San Carlo, nell’ottica di una sia pur minima quanto doverosa valorizzazione della gloriosa produzione del proprio Settecento, esattamente nel giorno onomastico del re Carlo III che ebbe a ordinare la fondazione del nuovo, gran tempio dell’opera attiguo al Palazzo Reale con apertura appunto il 4 novembre 1737 e, come noto, con l’Achille in Sciro di Domenico Sarro.
In sintesi, la prima dell’opera di Vinci “Promaestro della Real Cappella di Napoli” ebbe luogo a Venezia, “nel famosissimo Teatro Grimani [di S. Giovanni Grisostomo] nel Carnevale dell’anno 1726” secondo quanto recita il frontespizio del primo libretto a stampa edito da Marino Rossetti, con cast d’eccellenza guidato dal celebre castrato Nicola Grimaldi, detto il Nicolino, nel ruolo del titolo, dall’evirato Giovanni Carestini per il fratello antagonista Medarse e dal soprano Marianna Benti Bulgarelli detta la Romanina, musa ispiratrice e facoltosa protettrice del Metastasio, per Emira, principessa di Cambaia, in abiti da uomo e sotto mentite spoglie con nome Idaspe. Quindi a seguire, sempre nella versione musicale di Leonardo Vinci, il dramma sarebbe andato in scena a Verona (Teatro della Via Nova, nel 1728, con la curiosa dicitura “Musica di Leonardo Vincè”), nel 1731 di nuovo a Venezia al San Giovanni Grisostomo – oggi Malibran – ma con le aggiunte del Pescetti e del Galuppi e, tre anni più tardi, a Praga mentre, a Napoli, il titolo veniva sì portato nel 1727 sulle scene del vecchio Teatro San Bartolomeo, ma con le musiche di Domenico Sarro, con i peculiari Intermezzi comici e sempre con l’Emira della Romanina. Infine sarebbe arrivato anche al San Carlo, nel 1740, con le musiche di Davide Perez più grande coppia di castrati – Gaetano Majorano, il Caffarelli e il fiorentino Giovanni Manzuoli detto il “Succianoccioli” – nei rispettivi ruoli dei fratelli Siroe e Medarse.
Ciò premesso, va subito precisato che l’ampia partitura dalla durata di circa tre ore sfodera, con arte rara e pur entro la canonica architettura paratattica, dinamiche, “affetti” e virtuosismi notevolissimi, sorprese ritmico-armoniche, torniture melodiche e peculiarità d’accenti di fibra preziosa tanto nelle diverse, ventisei arie distribuite fra i sei personaggi in campo, quanto nella molteplicità dei recitativi – nell’occasione resi vocalmente in maniera assai plastica, data anche l’iniziale previsione della scena, nonché curatissimi nelle realizzazioni del basso continuo – e in special modo nella delizia dei numeri con strumenti a fiato obbligati, apprezzati grazie alle ottime prestazioni del primo oboe stabile e dei due corni sancarliani aggiunti. Una piena godibilità a nostro avviso leggibile non solo entro una naturale prospettiva d’interesse storico-musicologico quanto, innanzitutto, nell’ottica di un’attenzione ben più raffinata e moderna – non pochi infatti i giovani in sala e un ragazzo, da un palco lontano, ha pure twistato i ritmi di qualche aria – rispetto alle tante, solite minestre trite e riscaldate dal pieno Ottocento italiano. Vale a dire, non una spina nel fianco quanto piuttosto, dal nostro migliore Barocco musicale ancora in gran parte da riscoprire fra gli archivi di Napoli e Venezia, ovviamente affidandone la cura agli esperti e magari integrando gli organici, forse una grande opportunità anche per le grandi Fondazioni liriche intente a svecchiare in un sol colpo pubblico e repertorio.
A dimostrarne la fattibilità, i risultati dell’esecuzione di Antonio Florio sul podio di una compagine mista (con elementi del San Carlo accanto ai suoi fidati musicisti specializzati) ma perfettamente calibrata, con i due cembali a incastro al centro, basso continuo a corona e linea degli archi con fiati in posizione mediana. Un approccio che, sin dall’estesa Sinfonia d’apertura, così come nel dettaglio analitico dei tre atti in musica, ha garantito ordine e chiarezza attraverso la solidità del gesto e di un pensiero costantemente vigile al pieno rigore filologico, nel rispetto della scrittura e della puntualità dello stile in ogni sezione e ripetizione, in ferreo e coerente equilibrio nel gestire l’assieme o il “continuo” accanto a rifiniture speciali destinate ai fioriti “da capo” e alle dinamiche con ritardi accuratamente studiati per ogni chiusa.
Su un tale fondo sonoro poggiava, in via analoga, il ben centrato tiro barocco riconoscibile tanto nelle singole tecniche della messa di voce quanto nel lavoro di cesello di volta in volta operato sia nei recitativi stentorei che nella tripartizione dell’aria con “da capo”, pur entro un ventaglio dalle più svariate risorse canore emerse attraverso il complesso ordito di vendette e macchinazioni politico-amorose secondo il sistema dei personaggi in gioco.
Siamo – in via ancor più immaginaria, data la forma di concerto – nella città di Seleucia, dove Emira, la figlia dello sconfitto e ucciso re di Cambaia per mano del re di Persia Cosroe, intende vendicarsi una volta infiltratasi a corte sotto le virili spoglie di Idaspe. Istiga invano il figlio primogenito di quest’ultimo, Siroe, innamorato tra l’altro di lei, a uccidere il padre. Quindi, non raggiunto lo scopo, fa leva sulla gelosia del vecchio re per l’amata Laodice diffondendo la notizia di una presunta relazione fra la donna e Siroe. In parallelo, prende forma l’acceso antagonismo tra i due figli di Cosroe, il coraggioso, autentico quanto taciturno Siroe e l’inetto quanto menzognero Medarse, al quale il padre sta per assegnare ingiustamente il trono. Siroe, a tal punto, cerca la morte caricando su di sé l’accusa di tradimento e del tentato parricidio a difesa e vantaggio dell’amata Emira. A sciogliere il nodo avviluppato sarà Arasse, il generale delle armi persiane amico di Siroe e fratello di Laodice, giocato in ruolo defilato ma centrale e risolutivo, come d’altra parte lascia intuire la musica e, nello specifico, il peso della sua bellissima Aria di paragone (I.9) “L’onda, che mormora / tra sponda e sponda” per intenti neanche troppo distante dalla delicatezza della vivaldiana “Vinta à piè d’un dolce affetto” nella Verità in cimento. Fingendo di aver eseguito la condanna, salva e libera Siroe, restituendolo al popolo e al trono dinanzi allo svelamento delle identità, degli intrighi e al perdono di Cosroe che, alfine, lascia trionfare il bene nell’unico, brevissimo pezzo d’assieme cedendo al figlio primogenito il Regno e la mano della principessa Emira.
A dar voce e potenza al re Cosroe è il tenore torinese Carlo Allemano, rivelatosi già dalla sua prima aria di sortita (I.1) “Se il mio paterno amore” interprete dal canto robusto, scuro e vibrante, talvolta di tinta baritonale e stile un po’ ridondante ma, in ogni caso, sempre curato nella definizione delle agilità e ben saldo sia in zona medio-grave che nelle salite all’acuto. La seconda uscita spettava a Medarse, personaggio particolarmente infido, non solo per propria indole ma anche in pentagramma per una tecnica difficile da giocare a fil di lama, all’epoca d’altra parte destinato alle doti funamboliche del Carestini e nell’occasione assegnato alla bella e brava Leslie Visco, napoletana per nascita e formazione, classe 1985 e già forte di un buon percorso maturato accanto alle riscoperte del Sei e Settecento di Florio. Il suo Medarse fa leva su una luminosità del timbro, intonazione salda e su un’agilità della tecnica più che apprezzabili ma, sul fronte interpretativo, la sua dolcezza e il garbo poco legano con gli spigoli e la sostanza necessari al personaggio, in special modo in un luogo di tempra particolarmente agguerrita qual è l’aria posta a sigillo del primo atto “Frà l’orror de la tempesta”. In terza sortita ma in primo piano per la fiera padronanza di trucchi e tecniche atti a confezionare al meglio il rapporto testo-musica, fra l’argento vivo degli accenti e le sfumature melodiche con cui è in grado di dar senso melodico agli intervalli, c’era l’Emira del soprano Roberta Invernizzi attraverso la cui voce, pronta a tinte, salti, colorature e a scavi in recitativo dalle suggestioni molteplici, è stato possibile recuperare, così come già nel caso di Allemano, gran parte della dimensione scenica mancante. Il ruolo del titolo, che fu del grande castrato Nicola Grimaldi, canta la sua prima aria “Se al ciglio lusinghiero”, al termine della sesta scena del primo atto. Aria non particolarmente spericolata quanto, piuttosto, puntata sul potenziale espressivo e appunto, in tale direzione, ha preso giusta forma grazie alla pasta timbrica piena e brunita del mezzosoprano Cristina Alunno, Siroe senza clangori ma di stoffa autentica e sicura, un po’ in affanno in zona grave come ovvio che sia data la dolce attesa, ma disinvolta nel gestire altezze e significati. Emissione per lo più compatta e texture ancor più avvolgente con la Laodice di Daniela Salvo, giovane mezzosoprano di Prato formatasi in canto e pianoforte al Conservatorio di Avellino e specializzatasi nel repertorio barocco a Napoli appunto con Antonio Florio. Fra i suoi momenti migliori, la seconda aria “L’incerto mio pensier” (I.16) al fianco della delicata e virtuosa performance dell’ottimo primo oboe “obbligato” Hernan Garreffa e, ancora, con quel gioiello serrato in quinari e con corni da caccia obbligati “Se il caro figlio” (III.2) giocato sullo scatto della sensibilità materna in grado di trasformare in umana persino la tigre ircana. Completava il cast l’Arasse di Luca Cervoni, tenore dal colore chiaro e pregevole, non solo particolarmente idoneo al repertorio in ascolto ma convincente per facilità nei passaggi, cura del dettaglio e piglio espressivo, così come evidente sin dalle sue primissime note staccate nella citata aria di paragone con oboe. Infine, per il fondamentale contributo accanto al gruppo dei professori dell’Orchestra del Teatro San Carlo in formazione ovviamente ridotta, tra i musicisti di Florio specializzati nel repertorio barocco è d’obbligo segnalare almeno Marco Piantoni al primo violino e, per il basso continuo, Andrea Lattarulo al violoncello, Franco Pavan alla tiorba, Carlo Maria Barile e Patrizia Varone ai clavicembali.
Teatro San Carlo – Stagione 2017/2018
SIROE RE DI PERSIA
Dramma per musica in tre atti
Libretto di Pietro Metastasio
Musica di Leonardo Vinci
Cosroe Carlo Allemano
Siroe Cristina Alunno
Medarse Leslie Visco
Emira Roberta Invernizzi
Laodice Daniela Salvo
Arasse Luca Cervoni
Orchestra del Teatro di San Carlo
Direttore Antonio Florio
Basso continuo:
Violoncello Andrea Lattarulo
Tiorba Franco Pavan
Clavicembalo Carlo Maria Barile
Clavicembalo Patrizia Varone
Esecuzione in forma di concerto
Napoli, 4 novembre 2018