È bene non tentare metamorfosi di stile e lingua avendo consapevolezza dei ranghi socio-culturali cui si appartiene, come invitava a riflettere l’arguto drammaturgo irlandese, linguista e Premio Nobel George Bernard Shaw nel suo emblematico Pygmalion, o azzardare “all’uso moderno” – come direbbe il settecentesco Benedetto Marcello – innesti fuori campo nobilitandone il contenuto attraverso il contenitore, come poi sdoganato dalle successive declinazioni cinematografiche e musicali? L’equilibrio, nei fatti, resta instabile e così il dubbio sull’effettiva necessità in Stagione d’opera e per il balletto di uno spettacolo pur registicamente e scenograficamente confezionato a meraviglia, cantato e recitato molto bene ma, quanto a genere ed esiti sonori, in forte attrito con il pedigree e una coerente valorizzazione del coro in scena, dell’orchestra in buca e di una cornice teatrale in virtù di nascita, architettura e storia musicale entrata di recente nell’Olimpo del Patrimonio dell’Umanità.
È quanto rilevato in occasione del debutto del primo musical prodotto dal Teatro San Carlo di Napoli in lingua originale e in collaborazione con il Massimo di Palermo, My Fair Lady su testo di Alan Jay Lerner e musica di Frederick Loewe, titolo d’antan ma celeberrimo proposto per sette giorni con dieci recite e due date addirittura a doppia replica adattando la citata commedia di Shaw e l’omonimo film di Gabriel Pascal nel divertente allestimento registico di Paul Curran, con scene costruite ad arte da Gary McCann, gli esatti costumi primo Novecento, dai vistosi cappelli, di Giusi Giustino, le eleganti coreografie di Kyle Lang, le luci di David Martin Jacques. Il podio dell’Orchestra del Teatro San Carlo, nell’occasione, è stato assegnato a Donato Renzetti, direttore dall’importante carriera classica e d’opera in primis ma con non poche esperienze in altri generi musicali alle spalle avendo riletto ad esempio, in passato e al di là dei suoi esordi in qualità di percussionista e musicista in night club, Kiss me Kate di Cole Porter nell’allestimento di Lamberto Puggelli al Regio di Torino e, in via più informale, Cats di Andrew Lloyd Webber.
Per dare quindi in primo piano vita e forma vivacissime alla sfida ai limiti dell’impossibile lanciata all’amico e collega Colonnello Pickering dal misogino linguista Henry Higgins, sfida vinta a sangue freddo riuscendo con pazienza scientifica a nobilitare la rozza fioraia Eliza Dolittle nelle apparenze lessicali e di costume, ma non nell’autenticità di un cuore che nel lieto finale in musica trascinerà nel cambiamento anche lui, ha esordito una compagnia interamente made in London. Ossia, di specialisti effettivamente tutti bravissimi (e microfonati), selezionati in pacchetto ad hoc fra 2400 aspiranti e 300 audizioni. Intorno, il Coro (al passo ma un po’ imbarazzato nel genere) più Compagnia di balletto (maggiormente pronta al gioco) della Fondazione rispettivamente guidati da Marco Faelli e da Giuseppe Picone.
Entro le pareti di un’azione serrata e sullo sfondo di scorci scenografici in verosimile riproduzione di raffinata efficacia (dal brulicante Covent Garden market, con cornice fissa del colonnato esterno, allo studio di Mr. Higgins, al n. 27 di Wimpole Street, fitto di libri e in puro stile british con esterno in architettura edoardiana; dal quartiere degradato di Alfred P. Dolittle allo stilizzato ippodromo di Ascot o al lussureggiante roseto nella ricca residenza di Mrs. Higgins), tre quarti del musical dalla durata effettiva di circa tre ore sono andati a poggiare su una recitazione in lingua originale e scandita ad altissima velocità, nonché sul doppio binario fra il grasso slang della fascia cockney e l’inglese affettato del ceto alto-borghese. D’obbligo pertanto il continuo ricorso degli spettatori ai sovratitoli – occhi dunque per lo più puntati verso il sottarco scenico con buona pace di quanto accadeva in basso – e pure leggibili con difficoltà dato il rapido susseguirsi delle schermate in discreta traduzione fra il testo originale, gli spunti in dialetto napoletano di periferia e qualche carenza d’accento.
Relativamente al cast, si è distinta per qualità della dizione, ritmo teatrale e credibilità del ruolo, la protagonista Eliza di Nancy Sullivan, interprete dalla fisicità genuina, di gran spirito e dalla voce naturale in stretto vibrato, molto melodiosa in ogni registro e dal timbro chiaro, piuttosto infantile. In concreto, una voce non lontana dal cliché delle tante eroine di fabbrica disneyana e infatti particolarmente in linea con un contesto visivo e sonoro che molto ha ricordato il Mary Poppins di Robert Stevenson nato in quello stesso anno 1964 cui appartiene il più noto My Fair Lady creato per il grande schermo da George Cukor, con il grande Rex Harrison e una freschissima Audrey Hepburn.
Al fianco della Sullivan c’erano Robert Hands, Mr. Henry Higgins, impeccabile sia nella sua capricciosa ostinazione sperimentale quanto nella vocalità costruita fra picchi e un parlar cantando coniato sulle potenzialità di colui che ne fu il primo interprete, un giustamente tracotante Martyn Ellis, Alfred P. Doolittle, un ortodosso John Conroy per il Colonnello Pickering, il vocalmente e scenicamente aitante Dominic Tighe per l’amorevole Freddy Eynsford-Hill e una notevolissima Julie Legrand per la madre del professore Higgins.
Ben completavano la compagnia londinese Gillie Bevan, Mrs. Eynsford-Hill, Rachel Izen, Mrs. Pearce, Lee Orsmby, Harry, Harry Morrison, Jamie, più, in ensemble per le suggestive sortite a piccolo coro in special modo dei domestici, Helen Colby, Jenna Boyd, Lauren Ingram, Olivia Holland-Rose, Matt Harrop, Liam Wrate, Nicholas Duncan, Michael Cotton.
Un discorso a sé spetta invece all’Orchestra del San Carlo che, in formazione da camera spinta sugli ottoni per lo più con sordina e verso altri lidi timbrico-ritmici per l’inconsueta batteria, a stento abbiamo riconosciuto dopo il grande e complesso lavoro tecnico-qualitativo messo mirabilmente a segno fra la lirica e gli ultimi sinfonici, in special modo grazie al direttore musicale Juraj Valčuha. Per quanto riletta da Donato Renzetti con cura e gusto appropriati, la scrittura ritmico-melodica di mero accompagnamento e sostanzialmente elementare nei rapporti testo-musica relativi ai pochi ma molto amati numeri musicali (su tutti, il quintetto della svolta “Wouldn’t it be Loverly” ironicamente tradotto nello sgrammaticato “Oh come fosse bello” e “I could have danced all night” cantato da Eliza volteggiando intorno a un letto sullo sfondo di una grande luna, alla Pomi d’ottone e manici di scopa sempre con targa Stevenson-Disney) non poteva che sfociare in un sound leggero, da compagine swing o, dove necessario, con tiro e accenti da fanfara americana.
Al termine, il prevedibile lieto fine con il ritorno per amore di Eliza in casa di Mr. Higgins, con relativo lancio di pantofole tra i futuri coniugi, pubblico visibilmente divertito e applausi non lunghissimi ma andati caldamente a premiare tutti gli artefici e gli interpreti dello spettacolo.
Teatro San Carlo – Stagione d’opera e di balletto 2017/2018
MY FAIR LADY
Libretto e testi di Alan Jay Lerner
Musica di Frederick Loewe
Adattamento dalla commedia di G. B. Shaw
e dal film di Gabriel Pascal “Pygmalion”
Eliza Doolittle Nancy Sullivan
Mr. Henry Higgins Robert Hands
Alfred P. Doolittle Martyn Ellis
Colonnelo Pickering John Conroy
Freddy Eynsford-Hill Dominic Tighe
Mrs. Eynsford-Hill Gillian Bevan
Mrs. Pearce Rachel Izen
Mrs. Higgins Julie Legrand
Harry Lee Orsmby
Jamie Harry Morrison
Ensemble Helen Colby, Jenna Boyd, Lauren Ingram, Olivia Holland-Rose,
Matt Harrop, Liam Wrate, Nicholas Duncan, Michael Cotton
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Direttore Donato Renzetti
Regia Paul Curran
Scene Gary McCann
Costumi Giusi Giustino
Coreografie Kyle Lang
Luci David Martin Jacques
Nuova Produzione del Teatro di San Carlo
in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo
Napoli, 6 febbraio 2018