Mettono quasi i brividi quei circa quindici, insoliti minuti di tenebre totali che avvolgono sala, palcoscenico e buca entro una suspense surreale quanto impressionante, lasciando vibrare gli ottoni dal Do maggiore al minore e spingendo al massimo un effetto teatrale pari al tremore della terra: un fuoco unico sulla musica, fra voci, coro e un’orchestra dotata di lucine ultraviolette sulle partiture e due bacchette luminose per il direttore sul podio.
Inizia così il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini, la scultorea azione tragico-sacra a metà fra solenne oratorio e opera seria tornata al Teatro San Carlo di Napoli a venticinque anni dall’ultimo allestimento che, nel dicembre 1993 in apertura di stagione, vantava le voci di Mariella Devia, Roberto Scandiuzzi, Rockwell Blake e Michele Pertusi, quindi a duecento dalla prima assoluta del 5 marzo 1818 e in apertura delle celebrazioni per i centocinquant’anni dalla morte del compositore pesarese in parallelo alla ricca mostra documentaria “Furore napoletano” curata al MeMus dal rossinologo Sergio Ragni.
L’allestimento è quello di spiccata matrice pittorica firmato dall’inglese David Pountney per la Welsh National Opera, varato quattro anni fa a Cardiff e fin qui inedito per l’Italia, con le scene di Raimund Bauer ispirate alle cromìe di Marc Chagall e all’espressionismo astratto di Mark Rothko, i costumi di Marie-Jeanne Lecca, le luci di Fabrice Kebour. Minimal, plastico e altamente simbolico, affidato soltanto a due grandi pannelli di roccia di colore opposto, uno rosso e uno blu, destinati a tagliare in due un’opposizione interamente giocata sull’antinomia dei colori caldi e freddi, emblemi rispettivamente degli Egizi e degli Ebrei, di terra e sangue contro il cielo e la spiritualità, oltre che specchio dell’archetipico contrasto fra il male e il bene o fra autorità politica e religione. Quindi non meno sorprendente, dopo la cieca oppressione delle tenebre, l’arrivo improvviso e abbagliante della luce restituita grazie all’Invocazione di Mosè, su una magica spirale in tremolo dei violini. Al centro, il grande sole delle terre d’Oriente, sotto il quale si inanellano austeri pannelli corali e molteplici recitativi accompagnati, pochissime arie e bellissimi numeri d’assieme secondo una formula originalmente in bilico fra tradizione settecentesca – compresi gli originali finali a catena del Paisiello – e sperimentazione futura significativamente varata e circoscritta entro nove titoli dal celebre compositore per i Reali Teatri di Napoli: ossia, l’Elisabetta regina d’Inghilterra, La Gazzetta, Otello, Armida, appunto il Mosè in Egitto, Ermione, La donna del lago, Maometto secondo, Zelmira.
Il Mosé nasce dunque nel cuore dei giorni partenopei di Rossini e sotto il segno dell’arguto impresariato di Domenico Barbaja, quasi un esperimento a sé per forma e contenuti votati al sacro biblico in coincidenza con il periodo quaresimale, quindi nove anni dopo rielaborato secondo i canoni di Francia col nuovo titolo di Moïse et Pharaon, ou Le passage de la Mer Rouge.
Intorno a motori tematici che lasciano presagire la forza ieratica del Nabucco di Verdi a venire – dalla prepotenza del potere all’intervento divino, dall’oppressione e libertà di un popolo a una storia d’amore segreta e infelice – si sviluppa un ordito ben noto: l’Egitto è colpito dalla piaga delle tenebre perché il Faraone non ha mantenuto la promessa di liberare gli ebrei dalla schiavitù. A rischiararlo, innalzando il bastone verso il cielo, sarà Mosè che chiude appunto il pannello delle tenebre. Un nuovo conflitto a seguire sarà innescato dal figlio di Faraone, Osiride che, segretamente sposato all’ebrea Elcìa, cerca di impedirne la partenza con il suo popolo avvalendosi della complicità del malvagio consigliere Mambre e alimentando in tal modo un’ulteriore rivolta fra gli Egizi. Pertanto, intensa scena d’addio fra i due sposi, revoca del provvedimento promesso e nuova punizione divina con grandine e pioggia di fuoco. Faraone, sollecitato dai continui e accorati interventi della consorte Amaltea, concede di nuovo il permesso agli Ebrei mentre Osiride, disperato, tenta invano la fuga con Elcìa e di uccidere Mosè, restandone invece fulminato. La miracolosa separazione delle acque del Mar Rosso, nell’occasione realizzata con la parziale apertura dei muri, il passaggio degli Ebrei modellato sull’immagine del Quarto Stato del Pellizza e la morte dei soldati egizi travolti dalla chiusura di quelle stesse acque simulate dall’agitarsi di un leggero velo azzurro, va dunque a porsi quale simmetrico prodigio teatrale a epilogo e sigillo di una storia sin dalle premesse scolpita, prima ancora che attraverso le scene qui sapientemente ridotte a un essenziale senza tempo, attraverso invenzioni musicali moderne e perfette.
A coglierne e a restituirne in misura esemplare l’efficacia, valorizzando al meglio l’intero complesso delle risorse tecniche ed espressive in gioco è, innanzitutto, il direttore Stefano Montanari, talento estroso e musicista autentico salito per la prima volta alla guida dell’Orchestra e del Coro della Fondazione. Forza, dettagli e sostegno, più che da un limitato e comunque funzionale quadro visivo, regolato angolando i muri a pannello e geometrizzando con esiti pur non sempre felici la gestualità delle masse in scena, vengono infatti garantiti da Montanari che, nell’occasione in giacca scura allacciata al collo, pantaloni in pelle e stivaletti da motociclista, cesella con perizia barocca e sensibilità vivacemente sperimentale ogni inciso e accento, accompagnando con grande polso e respiro le voci, governando con rigore e passione i non facili tasselli e passaggi metrici in partitura, sfumando fin nel minimo le dinamiche dei recitativi accompagnati. O colorando e umanizzando i contrappunti meccanici quanto esatti ad esempio dei fagotti nell’aria di Amaltea (“La pace mia smarrita”) aperta, parimenti, con soffio prezioso dal primo clarinetto. Sollecita e ben variegata d’altra parte la risposta della compagine strumentale sancarliana della quale si lodano gli archi tutti guidati dal violino di spalla Gabriele Pieranunzi, l’arpista Antonella Valenti, il primo corno Ricardo Serrano, la prima tromba Giuseppe Cascone e il primo trombone Sergio Danini.
Al di là delle voci soliste, il genere d’opera porta intanto in primo piano il Coro del Teatro San Carlo (preparato da Marco Faelli) che, rispetto alla più congeniale, corposa tempra verdiana, in Rossini come d’altra parte nella scrittura di pari filigrana raffinata e sottile di Mozart – da Montanari richiamato in più luoghi rinviando tanto al Requiem quanto all’Idomeneo re di Creta – mostra soprattutto nella sezione femminile l’usura della corda, qui in particolare evidenza sin dall’apertura fra le tenebre e successivamente, nelle scene della ribellione e fino al coronamento nella celebre Preghiera finale “Dal tuo stellato soglio”, con movimenti registicamente interessanti ma negli esiti in concreto mal eseguiti.
La graduatoria di merito delle voci vede intanto primeggiare la sempre impeccabile Carmela Remigio, soprano con studi violinistici alle spalle e non a caso dotata di una rara capacità di controllo dello strumento-voce, in questo caso ritagliato veramente ad arte per il ruolo dolce, funambolico e intenso di Elcìa con intonazione infallibile, luminosi legati, colorature adamantine e scavi di viva espressione come nella sua unica aria gioiello, di meravigliosa tinta donizettiana, “Porgi la destra amata” o nella pirotecnica aria di tormento “È spento il caro bene”.
Un ex aequo spetta invece all’ottima prova del basso-baritono Alex Esposito, Faraone drammaturgicamente credibile quanto dall’emissione potente, sonora e pregnante, duttilmente valorizzata nei diversi luoghi dell’articolata estensione e dai fiati di lunghezza impressionante nella sua grande aria “Cade dal ciglio il velo”, così come al soprano Christine Rice, molto brava nel gestire virtuosismi ed emozioni per Amaltea.
Diverso il discorso sui tre tenori in scena: Mambre, in proporzione il meno esposto, vanta grazie all’interpretazione di Alasdair Kent omogeneità e singolare chiarezza timbrica a fronte del pur interessante, ma meno stabile, Aronne di Marco Ciaponi. Più complessa la valutazione sull’Osiride di Enea Scala, scenicamente prestante e di sincero slancio (fra le sue cose migliori, i molteplici baci ad Elcìa) quanto viceversa, nonostante il timbro appropriato, vocalmente per lo più sotto sforzo e quindi contratto all’acuto, fra accenti e passaggi disomogenei e anche qualche incertezza d’intonazione. Possente ma non speciale, infine, il Mosè del basso Giorgio Giuseppini mentre assai apprezzabile la prova, pur esigua, del mezzosoprano Lucia Cirillo per Amenofi.
Si replica al San Carlo fino a martedì 20 marzo per poi portarne giovedì 22 (alle ore 17) alcuni estratti in trasferta e in forma non scenica al Duomo di Orvieto, per il tradizionale concerto di Pasqua targato RaiUno in apertura ufficiale del progetto Omaggio all’Umbria edizione 2018. Stessi protagonisti ma con tre cambi: sul podio (dirige Donato Renzetti), per Elcìa (Karen Gardeazabal) e per Aronne (Krystian Adam). Il concerto sarà trasmesso in Eurovisione da RaiUno la sera di venerdì 30 marzo, dopo la Via Crucis di Papa Francesco.
Teatro San Carlo – Stagione d’opera e di balletto 2017/18
MOSÈ IN EGITTO
Azione tragico-sacra in tre atti
Libretto di Andrea Leone Tottola dall’Antico Testamento
e dal dramma di Francesco Ringhieri Osiride
Musica di Gioachino Rossini
Faraone Alex Esposito
Amaltea Christine Rice
Osiride Enea Scala
Elcìa Carmela Remigio
Mambre Alasdair Kent
Mosè Giorgio Giuseppini
Aronne Marco Ciaponi
Amenofi Lucia Cirillo
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo
Direttore Stefano Montanari
Maestro del coro Marco Faelli
Regia David Pountney
Scene Raimund Bauer
Costumi Marie-Jeanne Lecca
Luci Fabrice Kebour
Allestimento della Welsh National Opera
Napoli, 15 marzo 2018