Suggestivamente ottocentesca e autenticamente teatrale nella pregiata fattura dei fondali dipinti a mano dai laboratori interni alla fondazione quanto, al contempo, modernamente intesa secondo i codici allusivi di un dramma interiore, fra un’insolita chiave introspettiva in buca, la sostanziale autoreferenzialità delle voci e l’invenzione visivo-registica dell’inesorabile pioggia d’acqua vera in scena. Un dramma doloroso e chiuso in sé, sin dalle prime immagini osservato attraverso gli occhi e l’anima di una vita troppo presto al tramonto, quella della giovanissima Violetta Valéry.
Vale a dire, una dimensione drammaturgica e musicale senz’altro nuova, quella della Traviata proposta al Teatro San Carlo e con una parimenti inedita quantità di repliche a firma del proprio consulente alla direzione artistica e programmazione Lorenzo Amato, con le bellissime scene dal sapore antico – con regali tendaggi rubini, da salotto come da teatro – dell’oggi ottantottenne Ezio Frigerio e i ricchi costumi in stile, disegnati dalla consorte Franca Squarciapino. Una visione diversa dal solito ma che purtroppo, in parte per l’assenza di una reale forza di traduzione gestuale e in massima misura per gli esiti sbilanciati all’interno del cast vocale, scivolerà via proprio come quell’acqua su lastra di vetro inventata al centro della scena, lasciando ancora indisturbata e ben ferma nella memoria l’edizione a forte impatto creata sei anni fa, sempre per il Lirico napoletano, dal cineasta Özpetek, con la procace e potente Violetta di Carmen Giannattasio.
Nella corrente occasione per la protagonista, in primo cast, tornava a cantare il soprano kazako di appena ventitré anni Maria Mudryak (a seguire in alternanza con Francesca Dotto e, nelle riprese di maggio-giugno, con Nino Machaidze oltre a Hye Myung Kang e ad Aleksandra Kubas-Kruk), per Alfredo esordiva per la prima volta sul palcoscenico della propria città il tenore ventiseienne Vincenzo Costanzo (poi si ascolteranno Leonardo Cortellazzi, Celso Albelo, Francesco Demuro e Alessandro Scotto Di Luzio) mentre, per Germont padre, c’era l’ottimo baritono Vladimir Stoyanov (quindi Fabian Veloz e più avanti Leo Nucci, Stefano Meo e Domenico Balzani), nei fatti quest’ultimo andato a costituire la maggiore garanzia canora dello spettacolo inaugurale. Completavano il sistema degli interpreti Giuseppina Bridelli per Flora, Michela Petrino per Annina, Orlando Polidoro per Gastone, Nicola Ebau per il Marchese d’Ogigny e Francesco Musinu per Grenvil. Sul podio del Coro preparato da Marco Faelli e dell’Orchestra della Fondazione c’era l’acclamatissimo Daniel Oren.
La dimensione onirica e oltre il tempo cui si accennava già nell’intervista con il regista Lorenzo Amato è stata in verità con efficacia delineata sin dal cupo quadro d’apertura, concentrando lo sguardo su un gruppo maschile di spalle, stretto sotto gli ombrelli e una pioggia battente intorno a un tavolo – poi si vedrà al diradarsi della folla – con sopra il corpo sdraiato dell’avvenente Violetta Valéry, oggetto di desiderio ma anche vittima sacrificale che non poco ci ha ricordato l’immagine centrale di un’opera della modernità (The Rape of Lucretia di Benjamin Britten) rappresentata nei giorni della ristrutturazione al San Carlo nell’anno 1990 e, dunque, sulle assi del vicino Teatro Mercadante ex Teatro del Fondo.
Parimenti singolare e sin dal principio chiarissima, quanto nel caso della bacchetta specifica inconsueta considerate le esplosive direzioni generalmente scolpite da Daniel Oren, la linea musicale impressa dal podio. Una linea sottile e lancinante, calibratissima sul triplo piano dell’Adagio iniziale e da quelle battute sempre misurata e contenuta giocando sugli equilibri sonori, persino nel fortissimo, come a osservare e a svelare in piena sintonia con la straniante visione registica le diverse pieghe dell’azione attraverso la mente o l’inconscio. Ottimi in tal senso i risultati scaturiti con viva tensione dinamica e acume timbrico dalle diverse situazioni drammaturgico-musicali, a segno con piglio e precisione sia da parte dell’Orchestra (eccellenti su tutti il primo oboe Hernan Garreffa nell’”Addio al passato” e il primo clarinetto Sisto Lino D’Onofrio nell’Andante “Di Provenza”) che del Coro della Fondazione, con particolare attenzione alla distanza dei piani sonori fra voce e strumento, tra Alfredo e Violetta rispetto alla banda fuori scena o, ancora, fra la protagonista e le masse.
Ad ogni modo, rispetto all’efficace coerenza dal podio, scenicamente mal riusciti ci sono apparsi lo scatto di nervi con cui la protagonista scaglia e rompe sul pavimento una bottiglia (si presume di champagne) nello staccare al termine del primo atto il suo inno al piacere “Sempre libera degg’io”, l’effetto dell’umiliazione della giovane meccanicamente colpita da Alfredo con violente manciate di banconote al termine dell’atto secondo e neanche troppo felice, in apertura del terzo, è stata l’idea di presentare Violetta non come da didascalia sdraiata sul proprio letto, bensì in arrivo dalle quinte su una sedia a rotelle, quindi strisciante a terra nel tentativo di raggiungere e svegliare Annina comodamente assopita sulla dormeuse della stessa stanza.
Diverso e più delicato è infine il discorso sulla resa dei singoli interpreti nei ruoli di punta. Maria Mudryak vanta un talento canoro e una tecnica di emissione in grado di forgiare e di unire con morbida naturalezza e volume tanto le agilità che i bei colori entro una non comune sensibilità di fraseggio, in zona acuta, centrale e grave, sia nel canto spianato che di forza o di bravura, puntuale nello staccato-legato, nei luminosi flautati come nelle note trillate, a mezzavoce, parlanti o in recitativo. L’unico problema, in special modo trattandosi di Violetta, è che si dimostra molto cantante ma poco attrice. Ossia, troppo concentrata a far bene i suoni e, pur indubbiamente riuscendoci, non arrivando a riempirli di tempra drammatica e sangue per poi tradurli in gesti concreti, nonostante la bellezza fisica e anche al di là di un’impostazione registica evidentemente attenta a recuperare la coeva postura frontale. Ed ecco perché, pur centrando pienamente i suoi begli acuti e costruendo con originalità una propria, dolcissima più che sensuale o spregiudicata Violetta, ha raccolto una buona quota di applausi ma non a nostro avviso i clamori dovuti in proporzione a quanto compiuto dalla sua notevolissima voce.
Consensi e qualche sonoro fischio sono stati tributati al tenore Vincenzo Costanzo che, cresciuto in seno al Coro di voci bianche del Teatro San Carlo e in giovane carriera nonché Oscar della Lirica nel 2014 come Tenore New Generation, per la prima volta giocava in casa con un Alfredo dal metallo promettente ma nel controllo ancora troppo acerbo, sotto tutti i punti di vista. Sin dai suoi primi interventi nel celeberrimo brindisi non ha brillato per intonazione né per accenti, divenuti poi veri e propri deragliamenti in special modo slargando la vocalizzazione delle “a” sui lessemi derivati dall’amore. Tranciate quindi di netto le fondamentali pause di timidezza nel suo Andantino “Un dì, felice, eterea”, ha stimbrato la maggior parte dei suoni, puntualmente arretrando l’emissione nelle note all’acuto e accusando disomogeneità nei passaggi, così come nella disarticolata ricerca delle mezze tinte.
Interprete completo per intonazione, solidità della linea di canto e potenza di fiato sostenuta da una ricca gamma di colori e armonici si è quindi confermato il baritono Vladimir Stoyanov, Germont padre di grande caratura espressiva che, nelle diverse sezioni interne al lungo duetto dell’atto secondo ha saputo come cesellare, al fianco del canto quasi interiore della Violetta di Maria Mudryak e sul raro filo di suono tessuto in orchestra, una scena di gran pregio per qualità ed intesa.
Fra i comprimari si premia unicamente Giuseppina Bridelli, mentre non solo cammeo corale e coreutico di carattere, ma finalmente d’arte, è stato il quadro delle zingarelle e mattadori grazie al raffinato virtuosismo dell’étoile Giuseppe Picone e degli altri danzatori in campo sulle coreografie di Giancarlo Stiscia.
Teatro San Carlo – Stagione d’opera e di balletto 2017/18
LA TRAVIATA
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
dal dramma di Alexandre Dumas La dame aux camélias
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Maria Mudryak
Alfredo Germont Vincenzo Costanzo
Flora Bervoix Giuseppina Bridelli
Annina Michela Petrino
Giorgio Germont Vladimir Stoyanov
Gastone Orlando Polidoro
Il barone Douphol Roberto Accurso
Il marchese D’Obigny Nicola Ebau
Il dottor Grenvil Francesco Musinu
Matador Giuseppe Picone
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Marco Faelli
Regia Lorenzo Amato
Scene Ezio Frigerio
Costumi Franca Squarciapino
Luci Fiammetta Baldiserri
Coreografia e aiuto regia Giancarlo Stiscia
Nuova produzione del Teatro di San Carlo
Napoli, 27 febbraio 2018