I primi applausi a scena aperta arrivano per il Rodolfo del tenore francese Jean-François Borras, al termine del suo assolo-sigla “Nei cieli bigi” lanciato, con fervore giovanile e su un’orchestra in accelerazione “scapigliata” secondo la linea impressa al primo quadro dal direttore Stefano Ranzani, verso acuti chiari e stentorei. Acuti poi rivelatisi fra i suoi obiettivi di maggior forza per quanto regolati stringendone l’emissione anziché valorizzarli in proiezione. Ma a suscitare al termine della sua prima aria e a giusto merito applausi entusiastici è stata Eleonora Buratto, soprano mantovano in luminosa carriera internazionale partita come lirico leggero e oggi lirico puro, così come sottolineato in sede d’intervista e confermato dalla sua bellissima Mimì presentata per la prima volta all’Italia con La bohème di Giacomo Puccini in scena con successo al Teatro San Carlo di Napoli, sullo sfondo del tradizionale allestimento palermitano del regista Mario Pontiggia con le scene e i costumi di Francesco Zito.
Una voce saldamente intonata, dal colore leggermente brunito, di tinta calda come l’ambra e dal corpo pieno, morbido, intenso. Giusta negli accenti e ben sostenuta in ciascun passaggio quanto rara nel restituire al contempo smalto lirico a ogni nota, con prese di fiato, timbrature e dinamiche esatte entro il disegno delle frasi filate ad arco, una luce nelle puntature all’acuto senz’altro di eredità leggera, un legato spettacolare e un sempre assai sapiente rapporto fra il testo, la musica e la scena. Vale a dire, una grande Mimì, quella messa a segno alla prima sancarliana da Eleonora Buratto, che si inserisce nel solco tracciato dalle auree interpretazioni della Tebaldi, della Scotto e della Freni.
La sua aria d’esordio, “Sì mi chiamano Mimì” in forma di libero rondò, ipnotizza e arriva subito a toccare con le sue corde vocali quelle del cuore di tutti in un teatro pieno in ogni ordine di posti. E soprattutto un luogo canoro, quella sua prima aria, che già tanto svela di quanto si ascolterà, in termini di sostanza e dolcezza, fino allo straziante epilogo scolpito, in non agile posizione semidistesa e toccando il do basso, attraverso il suo ultimo assolo “Sono andati? Fingevo di dormire”, distillato con quella cura dell’articolazione ritmico-espressiva infatti riconosciuta in prima battuta nelle lievi sospensioni puntate all’interno dei lessemi “poesia” e “primavere”, nelle strette ma ben tornite acciaccature o nelle toccanti espansioni a forchetta dell’Andante molto sostenuto intonando con tutta l’anima “Ma quando vien lo sgelo”. Una voce, quella di Eleonora Buratto, rivelatasi nell’occasione decisamente portante e dunque ulteriormente apprezzabile all’interno di un casting dalle tarature non perfettamente centrate né tantomeno, nel corso dei quattro simmetrici quadri, rivelatosi particolarmente omogeneo sullo sfondo di un allestimento “contenitore” che perlomeno, nella sua banalità, ha avuto il pregio di non appannare l’attenzione verso la musica e la resa canora.
Per quanto nelle premesse dotato di una tempra chiara maggiormente adatta ai ruoli del primo Ottocento e, negli esiti, rivelatosi alquanto discontinuo nelle tessiture di passaggio, il Rodolfo di Jean-François Borras ha complessivamente mantenuto una buona sinergia con il gruppo degli altri bohèmiens, conservando una sempre personale delicatezza espressiva nelle mezze voci e trovando il suo momento più felice nell’accorata tensione fra recita e canto d’assieme al terzo quadro, sullo sfondo dell’innevata porta doganale di Parigi, scenicamente senz’altro l’atto più riuscito. Monolitica, viceversa, la prova del pur sempre apprezzato baritono Mario Cassi, Marcello di buona solidità vocale e di notevole prestanza scenica ma disegnato senza grandi sfumature. Al suo fianco, a formare la coppia di secondo livello, c’era la “sirena” Musetta del soprano Francesca Dotto della cui prova, sostanzialmente concentrata su quell’unico, meraviglioso Valzer al Cafè Momus tra la folla alla vigilia del Natale parigino, e sui materiali musicali affini, si colgono soltanto gli acuti un po’ striduli, a fronte di una zona centrale debole sia nelle parole che nei suoni. Di notevole volume ma ancora lontano anni luce dal senso e dalle regole prosodiche del testo lo Schaunard musicista di Leon Kim mentre, un discorso a parte, merita il filosofo Colline di Fabrizio Beggi, basso di tinta rara, lucente e bellissima – suoi infatti gli interventi maschili migliori nei quadri d’assieme – ma a mio avviso perfettibile nelle note più gravi della sua generosa “Vecchia zimarra”. Completavano il cast un efficace Matteo Ferrara nel doppio ruolo di Benoît / Alcindoro, Stefano Pisani per il folcloristico venditore di giocattoli Parpignol, Bruno Iacullo (sergente dei doganieri), Alessandro Lerro (doganiere) e Alessandro Lualdi (venditore ambulante).
A tenere ad ogni modo ben tese le briglie della partitura – ma anche a tirare la corda per le voci meno sicure – è stato, dal podio, Stefano Ranzani, incline a velocizzare il primo quadro in singolare rispondenza metasonora con i ritmi e gli accenti di una giovinezza spensierata quanto fugace e illusoria. Una visione metrica rimodulata infatti a seguire, ben spazializzando nel secondo quadro le masse sonore della Fondazione divise fra un’orchestra sollecita alle sue indicazioni, il compatto coro curato da Marco Faelli e un coro di voci bianche preparato con grande cura e precisione da Stefania Rinaldi. E così, per la Barriera d’Enfer, fra le raggelanti quinte vuote affidate all’impeccabile abbinamento di arpa e flauti garantito dalle ottime, rispettive prime parti Antonella Valenti e Bernard Labiausse sul tremolo dei violoncelli, l’incrocio e l’intarsio tra i fili sonori delle due coppie giocate a contrasto. Infine il ritorno in soffitta, con relativa atmosfera bipartita ma, stavolta, d’altro segno e con diverso, disincantato sguardo, ormai novecentesco, da Ranzani messo a fuoco senza perdere un solo anello nella fitta rete di rimandi motivici, fra ricordi, dettagli, sentimenti e lacrime a ricordarci, sotto la livida luce della morte, la fragilità della giovinezza come della vita.
Teatro San Carlo – Stagione d’opera e di balletto 2017/2018
LA BOHÈME
Opera in quattro quadri
dal romanzo di Henri Murger “Scènes de la vie de bohème”
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini
Mimì Eleonora Buratto
Rodolfo Jean-François Borras
Musetta Francesca Dotto
Marcello Mario Cassi
Schaunard Leon Kim
Colline Fabrizio Beggi
Benoît/Alcindoro Matteo Ferrara
Parpignol Stefano Pisani
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro di San Carlo
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Marco Faelli
Maestro del coro di Voci bianche Stefania Rinaldi
Regia Mario Pontiggia
Scene e ostumi Francesco Zito
Luci Bruno Ciulli
Allestimento del Teatro Massimo di Palermo
Napoli, 11 gennaio 2018