Lucida e moderna, tesa all’estremo più che vibrante, restituita a colpi netti e taglienti entro un’esatta dialettica in antitesi tra i diversi fuochi drammaturgico-sonori di buca, palco e fuoriscena. È la Tosca di Giacomo Puccini che dal suo emblematico anno millenovecento, così come analizzata e diretta per la prima volta in Italia da Juraj Valčuha in apertura del San Carlo Opera Festival sul podio delle compagini artistiche del Lirico di Napoli, lascia con fermezza alle spalle ridondanze e patemi ottocenteschi, pur frequenti in tante esecuzioni, per guardare invece stavolta dritta in avanti, verso l’acuminato sinfonismo e il crudo disincanto del teatro musicale europeo nel secolo delle avanguardie.
Ed è così che, da format lirico e coreutico disimpegnato, per turisti in città o comunque pensato per il pubblico d’estate, il Festival da tre titoli (quest’anno Tosca, Rigoletto e, per la danza, una Serata in omaggio a Rudolf Nureyev) con targa San Carlo può dirsi oggi cammeo di qualità, alzando il tiro di riletture, bacchette, regie e interpreti, nonché il numero e l’alternanza delle recite. L’allestimento inaugurale in campo, è quello tradizionale quanto efficacemente suggestivo creato da Mario Pontiggia dieci anni fa per il Maggio Musicale Fiorentino, a Napoli rimontato nell’edizione del Massimo di Palermo e in squadra con le scene di Francesco Zito, i costumi di Giusi Giustino più le luci di Bruno Ciulli secondo una liaison del segno registico-visuale condiviso per praticità logistica con l’opera di Verdi proposta in nuova produzione a seguire e in serrata sequenza.
Del tutto inedita invece, e ancora una volta sorprendente, la lettura del direttore musicale del Teatro San Carlo, Juraj Valčuha, per metà del primo atto condotta lungo una puntuale articolazione dei dettagli e una fin troppo omogenea temperatura espressiva presto rivelatasi, a dispetto di valutazioni superficiali o di scarsa sapienza, visione strategica finalizzata a caricare per contrasto la massima potenza delle deflagrazioni dinamiche e drammatiche toccate in bersagli mirati e magnificamente centrati almeno nella forza del gesto, quindi in gran parte resi in concreto dalle risposte in orchestra. Ossia, la grande scena del Te Deum al termine del primo atto; al secondo, la cantata festiva oltre le quinte in parallelo al truce interrogatorio di Scarpia, piantato al centro della scena nel suo studio a Palazzo Farnese e con strumenti tenuti a filo di gas, il sensibilissimo tema del pugnale dei violini primi con sordina sulla quarta corda, l’improvvisa impennata, rivoluzionaria e trionfante che introduce la fugace notizia della vittoria di Napoleone, con singolari accenni militari, dal podio idealmente in linea con la fonte di Sardou e sfoderati con pregnanza alla Šostakovič, mentre, per il terzo atto, l’attenzione si sposta su altro registro, fra l’alba estatica romana, dipinta con tratti da poema sinfonico e affidata al canto popolare lontano di una voce purtroppo non bianca ma di mezzosoprano (la brava corista sancarliana Pina Acierno) e sul lancinante lamento di Cavaradossi, retaggio dell’aria “con catene”, appassionato e “rubato” a dovere in un’orchestra di cui è d’obbligo citare l’eccellente “solo” del primo clarinetto. Infine, il giro di vite fino alla fucilazione, serrato fra realtà e finzione, quindi il suicidio di Floria Tosca, giù in volo di schiena da Castel Sant’Angelo.
Funzionali e suggestive le scene, con la grande cupola di Sant’Andrea della Valle che, in vertiginosa prospettiva tridimensionale, quasi opprime le tre sezioni del primo atto, a seguire opulento l’interno di Palazzo Farnese incorniciato dagli immensi affreschi e, per l’atto finale, un diverso sguardo per gli spalti di Castel Sant’Angelo dominati da un gigantesco stemma pontificio oltre che da un’insolita grata inventata per rendere più credibile l’impossibilità di fermare il gesto disperato della protagonista. Giusti inoltre i movimenti di solisti e masse, belli i costumi ottocenteschi come ben tarati i colori e i tempi delle luci. Infine buona, nel complesso, la prova di orchestra, coro (preparato dall’uscente Marco Faelli) e coro di voci bianche (curato da Stefania Rinaldi) della Fondazione.
Quanto al cast di prima scelta emerge, su tutti, il baritono Roberto Frontali, barone Scarpia dall’emissione piena e dalla dizione sempre chiarissima, padrone della scena come di un ruolo tanto sonoro quanto scavato in profondità per ferocia e lascivia in ogni piega della voce e del corpo. La sua tornitura al primo atto, anche dal podio, è vigorosa e scabrosa, così come repellente in quel suo credo sull’eros istintuale e malvagio al principio dell’atto centrale (“Ella verrà […]. / Ha più forte sapore la conquista violenta che il mellifluo consenso. / Bramo. La cosa bramata perseguo, me ne sazio e via la getto”) che per tinta e accenti tanto ricorda, al pari di non pochi altri spunti dall’Otello di Verdi, il Credo boitiano per Jago, forse neanche troppo a caso in simile posizione.
Perfettibile nel magnetismo del ruolo, invece, la Floria Tosca del soprano Ainhoa Arteta, fisicamente assai bella ma per lo più contratta in scena (come intuibile anche dal piccolo inciampo nel salire la scala di legno verso il dipinto dell’Attavanti) ma ben convincente, tolto qualche eccessivo vibrato, nella proiezione di un’ampia gamma tecnico-espressiva atta a rivelarne il piglio indomito, ma autentico, attraverso esiti canori molteplici, ora aspri o rotondi, ora spezzati, spinti con forza all’acuto, dolcemente cantabili o direttamente germinati dalla recitazione. Ad ogni modo, il suo “Vissi d’arte” ampiamente applaudito, non resta più di tanto nella memoria.
Internamente al gruppo dei protagonisti, ancora diverso è il caso del tenore Brian Jagde, Cavaradossi di notevole temperamento sia sul fronte eroico che amoroso, di buon volume, tinta calda e dal fraseggio avvolgente. Dunque, per quanto talvolta la sua voce risulti troppo coperta o introiettata, se ne apprezza l’ottimo complemento soprattutto nelle spigolose sortite di Tosca o, ancora, nella felice unione dell’esaltato, nudo canto a due, a pochi istanti dalla fatale esecuzione. Il suo “Lucevan le stelle” piace e il pubblico lo applaude generosamente a scena aperta.
Nella norma il resto del cast, affidato al prestante Carlo Cigni (Cesare Angelotti), all’ottimo Roberto Abbondanza (il Sagrestano), a Nicola Pamio (Spoletta), Donato Di Gioia (Sciarrone) e a Carmine Durante (Un carceriere).
Con lo spettacolo si è voluto rendere omaggio al Maestro Tullio Serafin nei cinquant’anni dalla scomparsa.
SAN CARLO OPERA FESTIVAL 2018
TOSCA
Melodramma in tre atti
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
dal dramma omonimo di Victorien Sardou
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca Ainhoa Arteta
Mario Cavaradossi Brian Jagde
Il barone Scarpia Roberto Frontali
Cesare Angelotti Carlo Cigni
Il Sagrestano Roberto Abbondanza
Spoletta Nicola Pamio
Sciarrone Donato Di Gioia
Carceriere Carmine Durante
Un Pastore Pina Acierno
Orchestra, coro e coro di voci bianche del Teatro di San Carlo
Direttore Juraj Valčuha
Regia Mario Pontiggia
Scene Francesco Zito
Costumi Giusi Giustino
Luci Bruno Ciulli
Produzione del Teatro Massimo di Palermo
Napoli, 12 luglio 2018