“Sebbene D’Annunzio, incassate le sue venticinquemila lire oro, se ne sia disinteressato, l’opera di Zandonai porta pur sempre l’impronta dell’Immaginifico e non consente soluzioni sbrigative”. Così Eugenio Montale, critico di lusso sul Corriere della sera, in occasione della precedente ripresa di Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai alla Scala di Milano. Correva l’anno 1959 e Gianandrea Gavazzeni dirigeva i complessi scaligeri, con Magda Olivero nel ruolo eponimo, Mario Del Monaco in quello dell’amato Paolo Malatesta e Gian Giacomo Guelfi quale Gianciotto. Un’infilata di nomi (Montale compreso) da far tremare vene e polsi. Eppure – lo dico a rischio di far gridare allo scandalo i laudatores tempori acti, del quale il mondo dell’opera abbonda – la scommessa della Scala di riportare in scena, a distanza di tanti anni, il capolavoro di Zandonai è sostanzialmente vinta. Credo anche che fosse ora, per il teatro milanese, di riproporre un titolo che, nel bene (molto, a mio avviso) e nel male, è lo specchio di un’epoca. E che, come dice Montale, porta fortissima l’impronta del “divino Gabriele”, poeta che con la sua presenza segnò in modo indelebile la storia italiana, non solo letteraria, a cavallo tra Otto e Novecento. Nata tragedia per la recitazione aulica e potente di Eleonora Duse, Francesca da Rimini venne adattata alle esigenze melodrammatiche da Tito Ricordi (“notevolmente scapitozzato e disossato”, disse sempre Montale del testo dannunziano). Ascoltare oggi questo capolavoro è un po’ come entrare nelle stanze della Prioria, l’abitazione di D’Annunzio a Gardone Riviera, sulla sponda bresciana del lago di Garda, cuore di quel complesso di edifici e giardini che il poeta stesso volle ribattezzare “Vittoriale degli Italiani” e dove visse gli ultimi anni della sua vita in un dorato esilio. L’arredamento, gli innumerevoli oggetti collocati nei vari ambienti della dimora, frutto di un gusto eclettico e aperto all’orizzonte del mondo, i profumi e la luce dell’immenso giardino, i suoni della natura: tutti elementi e suggestioni che concorrono a costruire un ritratto che è insieme quello dell’animo del “magnifico abitatore” e del suo tempo. Così, mi pare, la partitura di Zandonai tragga linfa vitale e ispirazione dal raffinato incedere del prezioso libretto dannunziano e la musica fiorisce elegante e liquida sul ricamo dei versi, rafforzandone e amplificandone l’intima musicalità e dando consistenza alle immagini evocate.
Di questa singolarissima natura rende ragione la direzione di Fabio Luisi, che dal podio dipana con sapienza le fila di un discorso articolato e complesso, mirando a evidenziare la modernità di scrittura di Zandonai, il suo essere pienamente inserito nel quadro di un Novecento memore del passato recente ma ribollente di novità e tensioni (ci sono Puccini con il suo empito melodico, la Giovane Scuola, Wagner con la sua poetica, ma ci sono anche Debussy e Ravel, con la loro sapienza di scrittura). Come sempre attento alle ragioni del canto, Luisi eccede forse un po’ con le sonorità e questo va a scapito non tanto delle voci (che sono ampie e generose) ma di una maggiore incisività nel restituire le pagine di ispirazione cameristica.
La protagonista Maria José Siri disegna un ritratto preraffaellita che non si esaurisce nella fredda contemplazione del bello ma si anima di carne e sangue. Forse non ha quell’esattezza e ricchezza d’accento che poteva esibire una Scotto, nè la sensualità di una Dessì, ma vanta una linea di canto solida e sicura, un’attenzione del tutto singolare all’espressione e al fraseggio, per di più con una voce bella e luminosa. Paolo è il tenore argentino Marcelo Puente e il suo è un personaggio pienamente convincente anzitutto dal punto di vista scenico: “il bello”, viene definito dal libretto, e non c’è dubbio che Puente un bel ragazzo sia. C’è poi il colore brunito di una voce che si configura come uno strumento ampio e morbido, che in certi passaggi ricorda proprio quel Del Monaco evocato all’inizio. Singolare e riuscito il confronto con la voce più leggera, ma sempre di bel colore e ottimamente utilizzata, dell’altro tenore, il Malatestino di Luciano Ganci. Gabriele Viviani è un ottimo Gianciotto: voce ampia e timbrata, chiara ed estesa, e personaggio sbalzato con giusta protervia. Complessivamente eccellenti i numerosi altri interpreti, tra cui si segnalano la Smaragdi di Idunnu Münch, la Samaritana di Alisa Kolosova e l’Ostasio di Costantino Finucci.
Il regista inglese David Pountney imposta la sua lettura su quelli che definisce – non a torto – “i due centri di interesse della vita e dell’arte del poeta (D’Annunzio, ndr): le donne e la guerra”. La scena realizzata da Leslie Travers presenta così un enorme busto femminile bianco, vagamente neoclassico, che a un certo punto viene confitto da lance, a significare lo stupro subito dalla protagonista (che si credeva destinata a Paolo e invece deve sposare lo sciancato Gianciotto) e più in generale la brutale penetrazione dell’universo femminile da parte di quello maschile. Creando un ponte tra l’epoca del dramma e l’epoca dannunziana, i costumi di Marie-Jeanne Lecca, richiamano il Medioevo per le donne e l’Italia fascista per gli uomini. L’operazione, pur se sostenuta da argomentazioni solide e per certi versi affascinanti, non convince del tutto per una certa macchinosità complessiva e per una recitazione che, in termini di pose e gestualità, non si distacca da una tradizione un po’ stantia. Ottimo il coro istruito da Bruno Casoni e apprezzabili gli interventi coreografici di Denni Sayers.
Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2017/2018
FRANCESCA DA RIMINI
Tragedia in quattro atti di Gabriele D’Annunzio
Libretto di Tito Ricordi
Musica di Riccardo Zandonai
Francesca Maria José Siri
Samaritana Alisa Kolosova
Ostasio Costantino Finucci
Paolo il bello Marcelo Puente
Giovanni lo sciancato Gabriele Viviani
Malatestino dall’Occhio Luciano Ganci
Biancofiore Sara Rossini
Garsenda Valentina Boi
Altichiara Diana Haller
Adonella Alessia Nadin
Smargadi, la schiava Idunnu Münch
Ser Toldo Matteo Desole
Il giullare Elia Fabbian
Il balestriere/Un prigioniero Hun Kim
Il torrigiano Lasha Sesitashvili
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Fabio Luisi
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia David Pountney
Scene Leslie Travers
Costumi Marie-Jeanne Lecca
Luci Fabrice Kebour
Coreografie Denni Sayers
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 15 aprile 2018