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Milano, Teatro alla Scala – Elektra

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Il 7 ottobre 2013 si spegneva a Clichy il regista, sceneggiatore e cineasta Patrice Chéreau, poeta dell’austerità e dell’intimità, tra i più apprezzati artisti francesi del ventesimo secolo. A cinque anni da questa grave perdita, il Teatro alla Scala ripropone la sua ultima regia teatrale, icastico capolavoro di rigore e intensità psicologica, vero e proprio testamento di Chéreau: Elektra di Richard Strauss. Lo spettacolo, che ha debuttato con successo nell’estate del 2013 al Festival di Aix-en-Provence, è una coproduzione tra il MET di New York, la Finnish National Opera di Helsinki, la Staatsoper Unter den Linden di Berlino, il Liceu di Barcellona e il Piermarini, dove è già stato visto nella primavera del 2014; per l’occasione, viene oggi ripreso da Peter McClintock.
Su libretto di Hugo von Hofmannsthal da Sofocle, quella di Elektra è una tragedia a tinte forti, caratterizzata da una classicità demoniaca ed estatica, imbevuta di cultura psicanalitica tanto cara all’Austria felix di inizio Novecento. Una storia di sangue, smania di vendetta, scontri generazionali, nevrosi, isteria delirante e omicidi, che culmina nella parossistica danza finale della protagonista, manifestazione del dionisiaco di nietzschiana memoria, atto liberatorio in cui la donna, sopraffatta dalle emozioni, muore annientata da una crudele esultanza pervasa di carnalità e follia.
Chéreau dà, di questa vicenda così morbosa, una lettura essenziale ed estremamente umana, calandola in un contesto atemporale. Per esempio, la grande scena di Elektra e Klytämnestra è vista come lo scontro tra due donne bisognose di affetto ma, purtroppo, incapaci di superare le proprie barriere per comunicare fra di loro, per ricucire un rapporto familiare oramai deteriorato. Oppure, la Totentanz conclusiva è reinterpretata in una chiave potentemente drammatica, di forte impatto: la protagonista, dopo aver compiuto qualche disarticolato passo di danza, si siede priva di forze su di un blocco di cemento, annichilita e senza più una ragione di vita, con lo sguardo perso nel vuoto come se fosse pietrificata. La sua missione è, oramai, compiuta, l’assassinio del padre è stato vendicato e la donna non ha più nulla che la pungoli, che la spinga a vivere.
La scenografia di Richard Peduzzi, che richiama alla mente alcuni dipinti degli anni Venti di Carlo Carrà, dipinge una Micene rigorosa, priva di orpelli o fasti: lo scarno cortile interno della reggia degli Atridi è delimitato da un’imponente struttura in pietra scabra, opprimente nella sua nudità, alleggerita sul fondo dall’aprirsi di un’ampia abside, quasi una sorta di basilica laica al cui interno vigono terrore, claustrofobia e morte. Semplici e un po’ dimessi, i costumi di taglio contemporaneo di Caroline de Vivaise, dalle cromie spente, con una speciale menzione per il sobrio abito viola cupo della regina, abbinato a un cappotto in tessuto goffrato. Efficaci le luci, tendenzialmente fredde e asettiche, di Dominique Bruguière riprese da Marco Filibeck.

Sul podio dell’Orchestra del Teatro alla Scala troviamo uno straussiano di razza, l’ottantanovenne Christoph von Dohnányi. Propendendo per un’agogica perlopiù dilatata, di ampio respiro ma pur sempre tesa, il maestro dà dell’opera una lettura estremamente analitica e approfondita nel cogliere ogni singolo dettaglio, sbalzato con una violenza tagliente. La sua è una direzione enfatica, improntata a un suono granitico e levigato come una lastra di marmo, algido e opalescente come la luna evocata da Elektra (il “velo lunare di argenteo chiarore”); tale sontuoso tappeto orchestrale, netto nella sua ottica di scandaglio della partitura, si alleggerisce nella scena dell’agnizione, dove von Dohnányi ottiene dalla compagine sonorità più sfumate. Ne scaturisce, quindi, una visione assai lucida e dinamica, magmatica senza mai essere soverchiante.

Parte mostruosa e faticosa, quella di Elektra, qui debuttata da Ricarda Merbeth. In possesso di una voce di buon volume, il soprano si distingue per un registro medio pieno e di colore caldo; se gli acuti, anche quelli più estremi, risultano saldi e graffianti, a tratti ghermiti e affilati come una lama, lo stesso non si può dire dei gravi, opachi e inconsistenti, come emerso soprattutto nel monologo iniziale “Allein! Weh, ganz allein”. Con slancio e temperamento e una dizione un po’ monolitica, la Merbeth delinea una protagonista ferina nelle movenze, disperata e nevrotica, risultando credibile in scena e muovendosi con disinvoltura, senza mai un cedimento.
Regine Hangler è una Chrysothemis luminosa e aggraziata, dalla vocalità non debordante e omogenea nell’emissione, asprigna nelle note alte, pungenti e poco gradevoli. Scenicamente abbastanza impacciata, la sua è una fanciulla dolce e remissiva, come dimostrato nel primo dialogo con la sorella, cantato con gusto e musicalità.
Nei panni di Klytämnestra troviamo, come già nel 2014, una beniamina del pubblico scaligero, il mezzosoprano Waltraud Meier. In possesso di uno strumento vocale timbricamente chiaro, dal colore sopranile, la Meier giganteggia per una non comune sensibilità nel porgere la parola (basti citare, per esempio, l’intensità e la fierezza con la quale dice “Von ihm zu reden hab’ ich dir verboten”, rispondendo alla figlia), nonché per la raffinatezza nell’interpretazione: la sua è una regina altera, elegante, costernata ma mai grottesca, lontana dal cliché che vede in Klytämnestra una matrona svociata e senescente. Se, a seguito di una carriera lunga e onerosa, la voce ha perso in alcuni punti di armonici e rotondità rispetto al passato, il mezzosoprano resta pur sempre un’artista di lusso, magnetica in palcoscenico.
Il baritono Michael Volle è un Orest imponente, vocalmente sonoro e ben proiettato, solido nell’emissione, profondo nello scavo del fraseggio, come ben esemplificato dal duetto con Elektra, reso con pathos ed efficacia.
Squillante l’Aegisth di Roberto Saccà, vigoroso e virile, mai macchiettistico, emerso per una voce espansa e brillante.
Completano il cast i numerosi comprimari: Frank van Hove (Der Pfleger des Orest); Renate Behle (Die Vertraute/Die Aufseherin); il gagliardo junger Diener del tenore Michael Laurenz; l’alter Diener di Ernesto Panariello; Bonita Hyman (Erste Magd), dalla vocalità di velluto scuro; Judit Kutasi (Die zweite Magd/Die Schleppträgerin); Violetta Radomirska (Dritte Magd); la querula vierte Magd di Anna Samuil e la veterana Roberta Alexander (Fünfte Magd). Incisivi i brevissimi interventi corali guidati da Alberto Malazzi.
Al termine, festante successo per tutti, con manifestazioni di sentito entusiasmo per Ricarda Merbeth, Christoph von Dohnányi, Regine Hangler, Michael Volle e, in misura minore, Waltraud Meier.

Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2017/2018
ELEKTRA
Tragedia in un atto di Hugo von Hofmannsthal
Musica di Richard Strauss

Klytämnestra Waltraud Meier
Elektra Ricarda Merbeth
Chrysothemis Regine Hangler
Aegisth Roberto Saccà
Orest Michael Volle
Der Pfleger des Orest Frank Van Hove
Die Aufseherin/Die Vertraute Renata Behle
Ein junger Diener Michael Laurenz
Ein alter Diener Ernesto Panariello
Erste Magd Bonita Hyman
Zweite Magd/Die Schleppträgerin Judit Kutasi
Dritte Magd Violetta Radomirska
Vierte Magd Anna Samuil
Fünfte Magd Roberta Alexander
Dienerinnen Lucia Ellis Bertini, Silvia Mapelli, Maria Blasi, Romina Tomasoni, Maria Miccoli, Julia Samsonova

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Christoph von Dohnányi
Maestro del coro Alberto Malazzi
Regia Patrice Chéreau ripresa da Peter McClintock
Scene Richard Peduzzi
Costumi Caroline de Vivaise
Luci Dominique Bruguière riprese da Marco Filibeck
Produzione Teatro alla Scala in coproduzione con Festival d’Aix en Provence; Metropolitan Opera, New York; Finnish National Opera, Helsinki; Staatsoper Unter den Linden, Berlin; Gran Teatre del Liceu, Barcelona
Milano, 4 novembre 2018

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