Attila, ovvero l’invasione delle cabalette. O forse no. L’opera di Verdi che ha inaugurato con il consueto clamore mondan-mediatico la stagione del Teatro alla Scala, nell’idea di Riccardo Chailly non è un lavoro tutto “brevità e fuoco”, come scrisse il compositore al fido Piave a proposito di un altro titolo di quegli anni. Scordiamoci quindi il clangore di ottoni e legni, l’infuocato ritmo delle già evocate cabalette, le voci tese allo spasimo. Tutto è levigato e tornito, nell’Attila di Chailly. Lo si intende sin dal Preludio – per inciso, straordinario per concisione e urgenza drammatica – dove il direttore sceglie un colore cinereo e un suono vellutato. Per poi conferire abbacinante lucentezza agli archi in un’altra pagina potentemente evocativa come l’alba sul Rio Alto. Lo strumentale ha un rilievo inedito, soprattutto nei passaggi di sapore cameristico come la stupenda aria di Odabella in apertura del primo atto o l’emozionante terzetto “Te sol quest’anima” nell’ultimo. Il rapporto tra buca e palcoscenico è sempre puntuale e gli insiemi precisi. Il generale dilatarsi dei tempi, tuttavia, lascia un po’ interdetti: se si tratta di una scelta funzionale alla valorizzazione della scrittura (ottima come sempre l’orchestra scaligera), ciò che ne risulta in parte compromesso è il passo teatrale. Si avverte come un freno che placa anche gli slanci dei cantanti in una sorta di decantazione dei sentimenti e delle passioni (la celebre frase di Ezio, ad esempio, “Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me” non ha quel respiro e quella solennità che, dicono le cronache ottocentesche, infiammava il pubblico in teatro). Forse Verdi, questo Verdi in particolare, necessita anche di un po’ di sano vigore padano. Che non significa necessariamente scadere nell’effetto bandistico. Tutt’altro. Perché in questo Verdi c’è, possente, l’eco di un mondo che affonda le sue radici in quella terra a cui il compositore si sentì sempre profondamente legato.
A dispetto delle voci di contrasti tra direttore e regista in fase di montaggio dello spettacolo, ho ritrovato una profonda consonanza tra le rispettive letture. Davide Livermore, grazie anche alle cupe scene di Giò Forma e alle luci di Antonio Castro, colloca la vicenda in un mondo grigio, dominato da un cielo plumbeo, agitato da nubi che incombono sulle rovine di un’Italia ferita dalla guerra. Precisamente la seconda guerra mondiale. Salvo poi illuminare la scena in momenti chiave, come l’incontro tra Attila e Papa Leone, plastica restituzione del magnifico affresco di Raffaello nelle Stanze Vaticane: un incubo che si avvera per il protagonista, ma una boccata d’ossigeno per il pubblico, complici i bellissimi costumi firmati da Gianluca Falaschi. E poi, ancora, nel banchetto dell’ultimo atto, dove è graffiante la denuncia della corruzione dei costumi degli invasori (e ci sono echi cinematografici di Visconti e Pasolini in questi militari viziosi e lascivi). Questa dinamica convince, come convince l’idea di puntare sul desiderio di vendetta di Odabella che, bambina, ha visto morire il padre per mano di Attila (e Livermore ci racconta questa frattura nella vita della fiera “vergine guerriera” proiettando l’episodio alle sue spalle sia nel momento dell’aria “O del fuggente nuvolo”, sia, a chiudere il cerchio, in quello finale dell’uccisione del tiranno). Nella figura di Odabella e nei romani più in generale, il regista immette opportunamente l’elemento patriottico attraverso un lacero tricolore che la donna tiene tra le mani in alcuni nodi cruciali della vicenda. Se il movimento del coro e delle comparse è sempre intelligente e coerente, quello dei protagonisti è più convenzionale: spesso, si limitano a cantare in proscenio, con le classiche pose melodrammatiche, lasciando come un retrogusto di incompiuto.
Nel cast, si impone l’Attila autorevole e, insieme, tormentato di Ildar Abdrazakov. La voce è di bel colore scuro, omogenea in tutti i registri, utilizzata con grande attenzione alle dinamiche e al fraseggio. Certo, mancano quell’ampiezza di cavata e quel volume che possedevano altri interpreti storici di questo ruolo. Ma il personaggio c’è e l’artista russo dimostra di avere scavato a fondo per farlo proprio, soprattutto nell’aria e nella cabaletta del primo atto, al termine delle quali il pubblico gli tributa una lunga ovazione. Saioa Hernández vanta una voce di notevole bellezza timbrica e un temperamento di tutto rispetto. Anche lei si dimostra consapevole della sfida che un personaggio come Odabella lancia a un’interprete. Tuttavia, la sfida è vinta a metà: il soprano spagnolo accusa difficoltà nella temibile aria di sortita e, più in generale, dove si trova alle prese con una scrittura virtuosistica. Recupera nei passi lirici, come la già citata aria “O del fuggente nuvolo”, restituita con delicatezza ed emozione. George Petean ha una buona voce chiara e sonora, ma, almeno nella prima parte dell’opera, fatica in acuto. Recupera poi offrendo una convincente interpretazione della sua aria e cabaletta, ma resta l’impressione di un interprete non risolto e comunque non adatto a un contesto come la Scala. Corretto il Foresto di Fabio Sartori, che canta con trasporto la bella aria “Oh dolore ed io vivea” scritta da Verdi per Napoleone Moriani, in occasione di una ripresa dell’opera proprio alla Scala nel dicembre del 1846. Bene hanno fatto Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone), nonché il coro della Scala istruito da Bruno Casoni, maestro anche del coro di Voci Bianche dell’Accademia della Scala.
Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2018/2019
ATTILA
Dramma lirico in un prologo e tre atti di Temistocle Solera, dalla tragedia Attila, König der Hunnen di Zacharias Werner
Musica di Giuseppe Verdi
Attila Ildar Abdrazakov
Odabella Saioa Hernández
Ezio George Petean
Foresto Fabio Sartori
Uldino Francesco Pittari
Leone Gianluca Buratto
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro dei cori Bruno Casoni
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro
Video D-wok
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 11 dicembre 2018