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Milano, Museo Teatrale alla Scala – Gioachino Rossini al Teatro alla Scala

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«Quale che fosse l’indifferenza abituale e forse un po’ voluta di Rossini, non poté impedirsi talora di parlare con l’accento dell’entusiasmo, che pure era così raro in lui, di questo bel periodo della sua gioventù in cui fu lieto esattamente come tutta quella gente che, dopo trecento anni di oscurantismo, si proiettava finalmente verso la felicità». Di tutte le città rossiniane – da Pesaro a Bologna, da Napoli a Venezia, fino a Parigi – Milano è forse quella di cui, come annotava Stendhal nella sua celeberrima biografia, Rossini meglio coglie la fervida operosità, «brillante capitale di un nuovo regno […] che riuniva ogni sorta d’attività, tutti i mezzi per fare fortuna e per ottenere il piacere». Pure, sono appena cinque i titoli che il compositore destina alla Scala, dal primo, trionfale successo della Pietra del paragone, con più di cinquanta repliche nell’autunno del 1812, alle strabilianti innovazioni della Gazza ladra, portentoso capolavoro semiserio al debutto il 31 maggio del 1817; passando attraverso gli esiti più contrastati di Aureliano in Palmira (1813) e Il turco in Italia (1814), fino al congedo di Bianca e Falliero (1819). Tale è stata la fortuna dell’opera rossiniana sul principale palcoscenico milanese, tuttavia, che è parso doveroso immaginare un percorso espositivo dedicato nelle sale del Museo Teatrale alla Scala, nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario della morte del compositore. Francamente poco creativo, il titolo dell’esposizione, Gioachino Rossini (1792-1868) al Teatro alla Scala, poco suggerisce dell’elaborato, ricchissimo itinerario impaginato da Pier Luigi Pizzi – con il coordinamento scientifico di Franco Pulcini e Paolo Besana – negli spazi che egli stesso aveva provveduto a riorganizzare e allestire nel 2004.

L’intuizione di partenza, infatti, è che la collezione permanente del Museo costituisce di per sé un insostituibile viatico per la scoperta della vita e dell’opera del Pesarese, attraverso le immagini – ritratti, stampe, litografie – che ripercorrono il gran secolo del melodramma italiano, da Rossini fino a Verdi, grazie al contributo di un florilegio di interpreti privilegiati che hanno segnato la storia del belcanto. Ma già nella prima sala risulta evidente il gioco di specchi che, con inarrivabile gusto dell’ironia, accompagna lo spettatore lungo la visita: alcuni manichini indossano infatti i sontuosi costumi in bianco e oro disegnati da Carlo Diappi per il Moïse et Pharaon che, con la regia di Luca Ronconi e la direzione di Riccardo Muti, venne eseguito il 7 dicembre del 2003. Il gioco di incastri si fa via via sempre più fitto e intrigante, fino alla Sala dell’Esedra, dove i ritratti di tre primedonne – non solo – rossiniane, Giuditta Pasta, Isabella Colbran e Maria Malibran, dalle pareti scrutano con fiero cipiglio gli abiti indossati da Giulietta Simionato (Angelina), Wladimiro Ganzarolli (Don Magnifico), Giuliana Tavolaccini (Clorinda) e Laura Zanini (Tisbe) in occasione della Cenerentola allestita nella primavera del 1954, firmata da Giorgio De Lullo su bozzetti e figurini di Pizzi. Con i ritratti di Luigi Riccardi, Giovanni Pierpaoli e Vincenzo Camuccini, i cimeli rossiniani sono di numero contenuto ma di inestimabile valore: con gli occhiali, meritano una menzione almeno la corona indossata da Giuditta Pasta in Semiramide e i gioielli delle sorelle Carlotta e Barbara Marchisio, dono di un musicista grato per la prima esecuzione della Petite Messe Solennelle, composta appositamente per le loro perspicue qualità vocali. Seguendo un abilissimo crescendo di marca rossiniana, Pizzi sfodera nelle ultime sale del Museo due autentici assi: l’autografo di Tancredi, aperto sull’incipit della cavatina “Di tanti palpiti”, e il costume di scena di Fiorilla, capricciosa protagonista del Turco in Italia, creato da Franco Zeffirelli nel 1955 per le sorprendentemente minuscole dimensioni di Maria Callas.

Più interessante e articolato, se possibile, si rivela l’itinerario proposto nelle sale della Biblioteca “Livia Simoni”, interamente dedicato alla storia della ricezione dell’opera rossiniana al Teatro alla Scala. Opportunamente prende le mosse da alcuni bozzetti acquarellati di Pietro Landriani, dedicati ai primi due titoli rossiniani allestiti alla Scala, La pietra del paragone e Aureliano in Palmira; ma poi lascia ampio spazio al magistero pittorico di Alessandro Sanquirico, il più celebre decoratore di primo Ottocento, cui spetta impostare il canone interpretativo per l’intero secolo con la maestosità di imponenti architetture neoclassiche, le strepitose prospettive per angolo, ereditate dal figurativismo manierista dei Bibiena, e infine il gusto di un orientalismo che trionfa nelle fantasiose, fastose campiture di Semiramide. Utile è dunque che, quasi a riannodare le fila con la storia della scenografia ottocentesca, venga sottolineato il ruolo di Nicola Benois, protagonista dei primi passi della Rossini Renaissance scaligera negli anni Sessanta del Novecento con la strepitosa Semiramide con Joan Sutherland, nel 1962, e L’assedio di Corinto, nel 1969, ripreso da Sandro Sequi per il talento di Beverly Sills.

Il percorso procede poi per generi. Si comincia dunque con l’opera buffa e ci si sofferma sull’eleganza calligrafica del Turco in Italia di Zeffirelli, prima citato; sulla storica Pietra del paragone allestita da Eduardo De Filippo nel 1959; fino allo stuzzicante Comte Ory presentato da Laurent Pelly nel 2014. Sul fronte serio, invece, la carrellata comincia con gli aerei paesaggi alpini dipinti da Carlo Ferrario per il Guglielmo Tell del 1899, fino all’innovativa produzione ronconiana del 1988, che per la prima volta include inserti video in un allestimento lirico. Ma, ancora una volta, è la trilogia buffa a farla da padrona: ed è bello precipitare nel serraglio di Mustafà, tra i raffinati giochi di silhouettes e gli esilaranti costumi degli eunuchi disegnati da Jean-Pierre Ponnelle per la leggendaria produzione del 1973; così come, a distanza di quasi mezzo secolo, è facile rendersi conto – osservando il modellino dell’originale congegno scenico girevole architettato per Il barbiere di Siviglia nel 1969 – di quanto la lezione del regista parigino abbia fatto scuola. Anticipata ai primi anni Cinquanta, grazie ai contributi figurativi di Marchioro e Caramba, Zeffirelli e Pizzi, Vellani Marchi e Rovescalli, la Rossini Renaissance acquista così contorni più mobili, dando conto di un’attenzione che aumenta con il trascorrere degli anni e culmina in quell’autentico colpo di fulmine rappresentato dal Viaggio a Reims, ripreso nel 1985 da Claudio Abbado, Luca Ronconi e Gae Aulenti, cui viene dedicata un’intera sezione. Da un capo all’altro di un lungo corridoio, i costumi indossati da Lucia Valentini Terrani nella memorabile Cenerentola di Ponnelle (1973) e da Samuel Ramey nell’indimenticabile Maometto II firmato da Pizzi (1994) restituiscono non solo due passaggi fondamentali nella storia della ricezione del melodramma rossiniano, ma soprattutto quelle emozioni indimenticabili, che la scena scaligera ha regalato a una generazione di spettatori.

La conclusione dell’esposizione è opportunamente sospesa tra passato e futuro: perché se è commovente osservare l’autografo della dedica della Petite Messe Solennelle – un congedo indirizzato direttamente al buon Dio, con quel gioco tra musique sacrée e sacrée musique che poteva scaturire unicamente dalla sapida arguzia del Pesarese – dall’altro un’installazione multimediale consente un confronto tra le fonti, illuminante anche per i non addetti ai lavori. Grazie alla preziosa collaborazione tra l’Archivio Storico Ricordi e l’Archivio di Informatica musicale dell’Università di Milano, infatti, una partitura interattiva accosta i rondò finali del Barbiere di Siviglia e della Cenerentola, permettendo un intrigante approfondimento sulla tecnica della parodia nella scrittura rossiniana.
Appagante sotto il profilo iconografico, l’elegante catalogo – edito per i prestigiosi tipi della Treccani – contiene un pregnante contributo di Daniele Carnini sulle relazioni tra il compositore e la città di Milano; e tuttavia crudelmente manca non soltanto dell’indispensabile teatrografia (se non dell’intero excursus rossiniano alla Scala, quanto meno delle produzioni illustrate nella mostra), ma soprattutto di un catalogo delle opere esposte. Pecca non proprio veniale, ma forse pensata appositamente per lasciare quell’aura di mistero che rende così inafferrabile l’enigma di Rossini, ancora così fecondo di prospettive critiche e performative.

Milano, Museo Teatrale alla Scala
GIOACHINO ROSSINI AL TEATRO ALLA SCALA
a cura di Pier Luigi Pizzi
Testi e ricerca immagini Mattia Palma
Coordinamento scientifico Franco Pulcini e Paolo Besana
Coordinamento generale Donatella Brunazzi
Catalogo Treccani
Milano, fino al 30 settembre 2018

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