Alceste è un’opera che ha bisogno di buone guide, soprattutto quando si mette in scena l’originale versione italiana composta per Vienna nel 1767. Per quanto la dichiarata riforma di Gluck tenda all’asciuttezza e a sfrondare gli orpelli tipici del repertorio barocco in voga fino a quel momento, il libretto di Calzabigi si contraddistingue per una aulicità e una sacralità che conferiscono a questo lavoro l’aura da solenne rito laico, quasi oratoriale, con lungaggini che al pubblico di oggi potrebbero sembrare eccessive. Buca e palco devono quindi cercare di veicolare allo spettatore moderno ciò che ancora può esserci di valido in questa storia, e rendere l’insieme drammaturgicamente coerente e appropriato per il gusto contemporaneo. Tuttavia è proprio il caso di dire che non tutte le ciambelle escono con il buco.
A Firenze si decide infatti di proporre la versione originale in una edizione già vista al Teatro La Fenice di Venezia tre anni fa. Lo spettacolo porta in ogni sua parte la firma di Pier Luigi Pizzi, che ha già incrociato Alceste diverse volte durante la sua carriera. L’impostazione è estremamente classica: la scena fissa è composta da scale digradanti a pianta rettangolare e una serie di arcate, in parte memori del Palazzo della Civiltà Italiana di Roma, così come dei fondali dei teatri ellenistici. A ciò si aggiungono a ogni atto elementi che connotano i vari ambienti: una statua baroccheggiante di Apollo e un incensiere per il tempio, alberi con teschi per la foresta e un enorme letto con cortina gialla per il palazzo. La scenografia, così come i costumi, è interamente giocata sulla contrapposizione di bianco e nero, in un continuo classicismo vagheggiato e richiamato alla luce di tempi moderni, ma difficilmente contemporanei, piuttosto che realmente vissuto e sentito. Le luci conferiscono profondità di campo, con qualche gioco suggestivo, ma sono tenute su tempi estremamente dilatati e finiscono per rendere il tutto estremamente statico. Stessa sorte tocca alla regia e ai movimenti veri e propri, in quanto la gestualità da vigile urbano fa da padrona in un concentrato di azione limitata, movimenti lenti e ripetitivi, e intenzioni teatrali sicuramente poco sentite. Le masse poi sono per lo più immobili e le poche volte che vengono mosse risultano poco credibili. Insomma, un’idea di teatro che punta a richiamare un neoclassicismo algido, il quale fa sicuramente arredamento, ma alla lunga annoia non poco.
Colpisce invece in positivo la direzione di Federico Maria Sardelli. Esperto riconosciuto di Vivaldi e frequentatore del barocco, il direttore livornese ottiene dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino un suono leggermente aspro ma leggero che acquista sempre più mordente nel corso della recita. I tempi risultano serrati, ma non manca una attenzione speciale ai particolari, i quali emergono sempre nitidi e quasi nuovi, dato che la partitura viene spogliata della solennità aulica che l’ha spesso contraddistinta. Molto buona risulta l’intesa con gli interpreti, che vengono sempre ben sostenuti, e con il Coro che rende giustizia alle grandi scene di insieme, grazie anche alla buona preparazione del maestro Lorenzo Fratini.
Il cast invece solleva qualche perplessità. Nino Surguladze, la protagonista, possiede una voce connotata da un bel timbro scuro con punti di forza nel registro centrale, mentre risultano problematici gli acuti, talvolta forzati, e i gravi che tendono a perdere di consistenza. Il fraseggio presenta qualche intuizione interessante ma risulta nel complesso poco fantasioso; non a caso manca al mezzosoprano lo scavo della parola da vera tragédienne, come questo ruolo richiederebbe.
Le cose vanno meglio col marito Admeto, interpretato da Leonardo Cortellazzi. Il tenore presenta una voce piena dal timbro leggermente brunito e dalla linea omogenea. Costruisce il personaggio attraverso un buon gioco di colori, un fraseggio accurato e accenti ben dosati, così da guadagnarsi l’unico applauso a scena aperta della serata.
Manuel Amati interpreta il confidente Evandro con voce ben sostenuta. Il timbro è molto chiaro e conferisce al personaggio un’idea adeguata di giovinezza. Sicuramente il giovane tenore avrà modo di lavorare per ampliare la varietà del fraseggio.
Stupisce ancora una volta, invece, l’appropriatezza scenica e vocale di Roberta Mameli nel ruolo di Ismene. Il volume non sarà debordante, ma viene compensato da accenti ben calibrati, un dosaggio sapiente dei colori e una proprietà di fraseggio incantevole. Qualche acuto un po’ tirato non inficia una prova brillante che conferisce il giusto rilievo al ruolo.
Gianluca Margheri si destreggia piuttosto bene nel doppio ruolo di Gran Sacerdote e Apollo, dispensando la giusta autorevolezza richiesta dalla parte col suo timbro scuro di basso; tuttavia non gli si confanno i tempi più serrati in cui la voce tende a perdere incisività. Senza macchia invece risulta la prova di Adriano Gramigni come Banditore e voce dell’Oracolo. Poco più che funzionali l’Eumelo di Pietro Beccheroni e la Aspasia di Costanza Mottola.
Il pubblico da parte sua si dimostra leggermente tiepido all’inizio, ma finisce per concedere applausi convinti a tutti i protagonisti e ai realizzatori dello spettacolo.
Teatro del Maggio – Stagione 2017/2018
ALCESTE
Tragedia per musica in tre atti
Libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Alceste Nino Surguladze
Admeto Leonardo Cortellazzi
Evandro Manuel Amati
Ismene Roberta Mameli
Un banditore/Oracolo Adriano Gramigni
Gran Sacerdote d’Apollo/Apollo Gianluca Margheri
Eumelo Pietro Beccheroni
Aspasia Costanza Mottola
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Federico Maria Sardelli
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia, scene, costumi e luci Pier Luigi Pizzi
Allestimento in coproduzione con Fondazione Teatro La Fenice di Venezia
Firenze, 21 marzo 2018