Chiudi

Catania, Teatro Massimo Bellini – Adelson e Salvini

Condivisioni

Ci sono opere che segnano una vita, opere che sono il frutto dello studio – come studi che fanno la fortuna di un’opera. Vincenzo Bellini non è più un enfant prodige quando, nel Carnevale del 1825, suggella il suo percorso di ‘maestrino’ al Real Collegio di Musica di San Sebastiano licenziando Adelson e Salvini, interamente eseguito dalla classe maschile degli allievi della scuola di canto di Girolamo Crescentini: ed è subito trionfo. Oggi, a riascoltare questa partitura, è difficile non pensare al percorso a ostacoli affrontato da un giovane, oscuro musicista catanese, che abbandona diciassettenne la sua città natale per affrontare un impervio apprendistato musicale al seguito di mostri sacri, su tutti quel Nicola Zingarelli, direttore dell’istituzione musicale partenopea e nume tutelare della Scuola napoletana, da oltre due secoli votata al culto della melodia. Ma anche ai suoi colleghi di canto, a esempio quel Giacinto Marras che intonerà en travesti la prima melodia autenticamente belliniana, quella della romanza di sortita di Nelly, «Dopo l’oscuro nembo», e che poi farà carriera con Giulia Grisi e Lablache, a Napoli e a Vienna, in Francia e in Inghilterra e in Russia, fino alle estreme propaggini dell’India, lì dove il belcanto si tinge d’inimmaginabili suggestioni esotiche. «Dopo l’oscuro nembo» può essere considerata sintesi della poetica belliniana: non solo perché rivista in innumerevoli versioni – in mi minore, e poi in re, in do e finalmente in fa, per approdare al sol minore di «Oh! quante volte oh! quante», con cui la Giulietta dei Capuleti e i Montecchi darà voce alle sue inquietudini giovanili; ma proprio perché l’umbratile pensosità dell’aria di paragone perfettamente si attaglia a descrivere quell’inattingibile ricerca della felicità, che attraversa l’intera drammaturgia musicale belliniana fino al prematuro testamento dei Puritani.
Adelson e Salvini costituisce un unicum nella parabola compositiva di Bellini: unico titolo dichiaratamente semiserio, sul calco ‘alla francese’ importato a Napoli durante il quindicennio francese; unica opera belliniana con un personaggio buffo che si esprime in lingua napoletana, ultimo specchio di quella maschera di Pulcinella che attraversa i confini dell’Europa, migrante affamato e perennemente in bolletta ma sempre provvisto di atavica, invidiabile saggezza; unico caso in cui viene nuovamente intonato un libretto esistente, redatto da Andrea Leone Tottola per Valentino Fioravanti nel 1816, che si rivela strumento funzionale per raccontare una storia di formazione, alla moda settecentesca, ma già percorsa da romantici furori. È, come tale, un testo in cui è difficile penetrare, evoluzione complessa della commedia umana mozartiana verso una nuova temperie espressiva. Su tutto questo si fonda il genio di un compositore non certo precoce ma già maturo, padrone di una scrittura musicale ancora fondata sul rossinismo imperante eppur provvisto di una sorgiva, ammaliante originalità.
È tutto questo, ma è diventato molto di più, Adelson e Salvini. Ripresa per la prima volta in epoca moderna nel 1985, a 160 anni dalla prima, in occasione del 150° anniversario della morte del compositore, nella trascrizione dell’autografo curata da Salvatore Enrico Failla, è stata la pietra angolare su cui sono stati edificati i moderni studi belliniani: con una storia segnata da coraggiose, indimenticabili operazioni performative – nel 1992 la creazione della seconda versione, ricostruita da Domenico De Meo essenzialmente da un manoscritto napoletano – fino all’Edizione critica di Vincenzo Bellini, patrocinata da Casa Ricordi, monumentale work in progress che adesso passa al vaglio della scena anche l’operaprima, nella lezione curata da Candida B. Mantica. E forse il segno che il soffio della storia abbia spirato anche su questa ripresa è testimoniato dal convegno di studi (Il teatro di Bellini. Spettacolo, prassi esecutiva, multimedialità) che ha accompagnato il debutto dello spettacolo e che ha focalizzato le ultime frontiere, non più e non solo documentarie, della drammaturgia belliniana. Un significativo passo avanti, dunque, per il TeatroBelliniFestival, per il quale ancora molto occorre lavorare, ma che almeno sotto il profilo scientifico può vantare blasonate patenti di nobiltà.

Per cogliere l’essenza di quest’opera, forse più che nelle altre, occorre allora percepirne la temperie espressiva, la temperatura emotiva. Ed è difficile, oggi, immaginare bacchetta più accorta di quella di Fabrizio Maria Carminati, specialista del repertorio primottocentesco italiano, in stato di grazia alla guida di un’orchestra con un organico ridotto, come si conveniva a una recita conservatoriale, ma proprio per questo capace di esaltare le filigrane concertanti che punteggiano la scrittura belliniana. C’è tutta l’energia rossiniana, a cominciare dalla baldanzosa Sinfonia iniziale; ma emerge anche la capacità, repentina, di virare verso chiaroscuri di cristallina eleganza, giochi di luce che brillano con maggior evidenza grazie al luminoso nitore della trama orchestrale. Tutti questi elementi, poi – forse questa era la sfida maggiore da affrontare – miracolosamente convivono nei passaggi scopertamente semiseri, in cui comico e tragico si sovrappongono o si succedono, in un gioco d’echi e di rimandi difficilissimi da equilibrare: è il caso del Duetto tra Salvini e Bonifacio, «Speranza seduttrice», in realtà impervia cavatina di sortita con un pertichino di straripante bonomia; del sontuoso Finale primo, con l’arrivo di Adelson, «Obbliarti? abbandonarti?», quasi ad anticipare il ritardato arrivo sulle scene di Ernesto di Caldora nel Pirata; del convulso Finale secondo, in cui sembra non essersi ancora spenta l’eco attonita e sgomenta dell’incendio del Campidoglio su cui cala il primo sipario della mozartiana Clemenza di Tito; e per finire il lunghissimo, ma già memorabile Recitativo accompagnato che precede l’Aria con cori di Salvini, «Sì, cadrò… ma estinto ancora», vibrante climax dell’intera costruzione drammaturgica, da cui scaturisce l’inatteso lieto fine. Carminati è, insomma, direttore attento a sottolineare i debiti nei confronti del passato e a lasciar presagire il futuro, prossimo venturo: con una cura, sarebbe meglio dire un’attenzione affettuosa nell’accompagnare le voci, semplicemente encomiabile. Va ancora sottolineato come, dopo una vertiginosa girandola di cambi al vertice, il Coro maschile sembra aver ritrovato omogeneità, compattezza e scaltrito gioco delle dinamiche sotto la nuova guida di Luigi Petrozziello.

Sul palcoscenico agisce una compagnia giovane ma non troppo, sull’esempio di quanto avvenne a Napoli per la prima rappresentazione. La palma della migliore spetta senz’altro alla Nelly di Josè Maria Lo Monaco, eccellente non solo nell’attesissima sortita. Esponente di spicco della giovane generazione rossiniana – e dunque, inutile dirlo, mirabile nella fluidità della coloratura, che pure qui la partitura non esige stratosferica – si ritrova perfettamente a proprio agio nel primo titolo del compositore, suo concittadino: perché comprende che qui occorre valorizzare un timbro morbido, vellutato, ricco di armonici, per mettere a fuoco una paletta di colori dosata con perfetto equilibrio e sempre mutevole, cangiante attenzione alle sfumature; e soprattutto perché lavora di bulino, cesella, tornisce la frase, progressivamente la dipana per mettere in stretta correlazione, addirittura in simbiosi, il «primo suo martir» di un’anima inquieta con l’attesa che il sole ritorni «di luce a sfavillar». Compone, insomma, un ritratto di notevole pregio, non privo di momenti d’intensa drammaticità (come nell’accorata perorazione «Salvini… alle tue piante») e di profondità psicologica. Accanto a questa conferma si pone la bella sorpresa di Francesco Castoro, impegnato nel temibile ruolo di Salvini, che affronta con indomita sicurezza e facilità nel registro acuto. È provvisto della qualità essenziale per affrontare la vocalità belliniana, un metallo di pasta smagliante e di bella proiezione, con cui riesce a dare appassionato slancio e foga disperata a quello che, opportunamente, presenta come un trait d’union tra il cupio dissolvi di Werther e quello che, di lì a un paio d’anni, assalirà con furia tempestosa anche il pirata Gualtiero. Affronta con sottigliezza di gradazioni espressive il fraseggio della difficilissima Aria finale, esaltando il malinconico abbandono della melodia «lunga, lunga, lunga» che la connota, tanto da suscitare la catarsi risolutiva. Si ritaglia un successo personale, infine, Clemente Antonio Daliotti, agguerrito, esemplare Bonifacio. Figura slanciata, ammiccante e segaligna, finalmente sottrae la figura del servitore partenopeo da una tradizione di buffi di grassa e crassa evidenza: ne fa, al contrario, un dandy di superiore raffinatezza ed eleganza, progenitore delle ‘macchiette’ di Maldacea e Petrolini, caratterista di rango nel descrivere le disavventure di un mercante di salumi «abbascio a la Dogana» forzatamente «strascenato» fino all’Irlanda per tenere a bada il suo padrone, il volubile pittore romano Salvini. Inutile dire quanto questo cammeo si giovi di una vocalità forse troppo chiara ma semplicemente perfetta tanto nei recitati, che spesso somigliano a complicatissimi scioglilingua, quanto negli esempi di sillabato, sciorinato con sciolta comunicativa e invidiabile verve. Diventa così la chiave di volta, il deux ex machina capace di districare lo ‘gliuommero’ dell’intera vicenda, sguardo dal basso capace di comprendere, spiegare e risolvere i casi dei grandi.
Più alterne le altre prove. Si conferma professionista di rango Carmelo Corrado Caruso, che incarna un Adelson di sicura autorevolezza, una volta risolto un cenno di vibrato nella sortita: s’impegna, opportunamente, a sottolineare il carattere donizettiano di una scrittura da baritono grand seigneur, volta a esaltare la carica umana e l’incrollabile spirito d’amicizia che ne animano costantemente l’agire. Più acerbo il pur promettente Giuseppe De Luca, che dovrà ancora maturare prima di affrontare una parte di primo piano come quella di Struley, per il quale occorre ben altro smalto e presenza scenica. Piglio viperino e autoritario caratterizzano la Madama Rivers di Kamelia Kader, come efficace è il Geronio di Oliver Pürckhauer, mentre Lorena Scarlata appare in affanno nella scrittura sepolcrale di «Immagine gradita», in apertura di sipario, poi in parte recuperando durante la serata.

L’impaginazione scenica dello spettacolo – coprodotto con il Teatro Pergolesi di Jesi, dove aveva debuttato nell’autunno di due anni or sono – si avvale della sobria regia di Roberto Recchia, su scene di Benito Leonori e costumi di Catherine Buyse Dian. Almeno tre sono i punti di merito della produzione: i primi due – la leggibilità dell’azione, quanto mai ingarbugliata, e la compostezza delle parti recitate, tallone d’Achille di questi testi – sono solo apparentemente scontati, ma in realtà consentono di far procedere l’azione con innegabile fluidità narrativa. Più interessante è la scelta di associare l’opera pittorica di William Etty, protagonista del primo Romanticismo britannico contemporaneo di Bellini, all’attività di Salvini: è immaginaria l’Irlanda che scaturisce dalle sue tele, così come psicologicamente complesso si rivela il rapporto con il sesso femminile, raffigurato in una serie di nudi dal volto assente o oscurato. È appena un accenno, cronologicamente coerente, ma che consente di dare spessore ai tormenti del pittore romano come al controverso rapporto con Nelly, la donna amata, e con Fanny, che per lui invano sospira. Di più: nel viavai di sipari e di quadri, accostati fino a saturare lo spazio scenico, si fa strada una visione metateatrale dell’intreccio, quasi partorito dalla psiche contorta dell’artista – fino al trauma che lo libera dai suoi fantasmi, l’ombra di Nelly temuta e al tempo stesso accarezzata. Adelson e Salvini, così, diventa metafora dello statuto dell’artista, dei suoi desideri irrealizzabili e delle sue aspirazioni più recondite, studio di carattere che illumina i primi, sicuri passi del giovane compositore: opera che si apre alla vita e ne prefigura il luminoso, sfolgorante percorso.

Teatro Massimo Bellini – Stagione lirica 2018 – TeatroBelliniFestival
ADELSON E SALVINI
Dramma per musica in tre atti adattato da un libretto di Andrea Leone Tottola
Musica di Vincenzo Bellini
Prima versione, edizione critica a cura di Casa Ricordi, Milano

Nelly Josè Maria Lo Monaco
Madama Rivers Kamelia Kader
Fanny Lorena Scarlata
Lord Adelson Carmelo Corrado Caruso
Salvini Francesco Castoro
Bonifacio Clemente Antonio Daliotti
Struley Giuseppe De Luca
Geronio Oliver Pürckhauer

Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini di Catania
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Luigi Petrozziello
Regia Roberto Recchia
Scene Benito Leonori
Costumi Catherine Buyse Dian
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi
Catania, 23 settembre 2018

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino