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Bologna, Teatro Comunale – Don Giovanni

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“A Don Giovanni non piacciono i muri! È come un uomo di spettacolo a cui piace costantemente essere osservato!” dice il regista Jean-François Sivadier nell’intervista apparsa sul programma di sala redatto per l’allestimento di Don Giovanni, che approda in chiusura di stagione al Teatro Comunale di Bologna dopo essere passato sui palcoscenici di Aix-en-Provence, Nancy e Lussemburgo. In tale frase sta forse il senso di uno spettacolo complesso e a prima vista non immediato.

L’impianto scenico firmato da Alexandre de Dardel si offre in tutta la sua semplicità già mentre il pubblico entra in sala: sul palco si trova una pedana rettangolare rialzata e inclinata; in aria pendono lampadine multicolori e varie americane su cui vengono issati sipari dorati; sul fondo si staglia un nudo muro di cemento. Lo spazio è totalmente aperto e gli interpreti lo popolano a luci ancora accese in sala, divenendo personaggi sotto i nostri occhi: alcuni con estrema rapidità, altri attraverso un percorso più lento, secondo il processo maieutico che Sivadier dice di usare nella costruzione delle sue regie. L’immedesimazione è una vera incarnazione e catarsi, ma solo chi interpreta Don Giovanni riesce a liberarsi di tutte le sovrastrutture che la società gli ha imposto, fino a diventare pura essenza libera e nuda; gli altri non possono che provare a tornare alla normalità dopo aver tentato di riportare alle convenzioni il protagonista, ma rimarranno sempre in suo potere, perché attraverso di lui hanno visto la libertà potenziale dell’uomo con tutti i prodigi e i disastri che ciò comporta. La libertà infatti va continuamente a scontrarsi con regole e costrizioni della società, qui rappresentata dalla nuda parete di fondo, aggredita continuamente dai due attori alter-ego di Don Giovanni, i quali provano addirittura ad abbatterla nel finale primo, mentre il protagonista minaccia gli altri personaggi con una pistola. Nell’enorme crepa che ne scaturisce si materializza tuttavia l’enorme statua incappucciata del Commendatore, colui che può e deve mettere le cose a posto in quanto non è stato mai catturato dal potere del protagonista. A Don Giovanni non piacciono muri perché è libero e non vuole essere imbrigliato; gli unici che crea sono infatti degli effimeri tendaggi dorati, la cui densità tonale è costantemente alterata dal protagonista che conquista il palco in ogni modo possibile.
Se la premessa concettuale sembra interessante, bisogna dire che non tutta la messinscena appare così immediata e ben realizzata, tanto che per molti aspetti questo è apparso il solito Don Giovanni “modernizzato”. In primis ciò è dovuto alle relazioni tra i personaggi, che in linea di massima non si discostano molto da quelle tradizionali. Gli interpreti si prestano spesso a movimenti canonici o statici, ed è lasciata a loro stessi la volontà di immedesimarsi più o meno a fondo nella regia vera e propria, con una certa disparità di prestazioni attoriali. Ciò si nota soprattutto nelle arie, mentre i recitativi hanno una scioltezza maggiore. Le immagini complessive suggerite sono comunque modernissime e di sicura presa generale, connotate da una estetica decadente postmoderna, grazie anche alle bellissime e calibrate luci di Philippe Berthomé. In sostanza, quello di Sivadier è un Don Giovanni di metodo, non di narrazione, figlio di un teatro di ricerca che può funzionare nella prosa ma che nell’opera mostra i suoi limiti tecnici.

Musicalmente parlando, l’attenzione è tutta puntata su Michele Mariotti, che con questa produzione lascia l’incarico di direttore principale del teatro bolognese. L’orchestra risponde con convinzione al gesto del Maestro e dimostra sempre notevole compattezza e precisione. Mariotti ne ricava un suono tornito e di buona fattura, mai prevaricante rispetto ai cantanti, con cui respira sempre all’unisono, sia nei tempi serrati che in quelli più rilassati. La sua direzione cerca di coniugare la tradizione classica, che rintraccia in Don Giovanni l’afflato pre-romantico, con le ultime tendenze baroccheggianti pervase di leggiadria e ritmo. La sfida appare vinta soprattutto nel primo atto e nel finale, con sprazzi di vera e propria teatralità e brio; altrove si riscontra una eccessiva tendenza all’intimismo che porta a non fare esplodere tutta la potenziale vitalità mozartiana, come dimostra un “Su! Svegliatevi da bravi!” vagamente castigato. Le arie e i concertati sono dunque estremamente apprezzabili per la cesellatura quasi celliniana del suono, ma non soddisfano sempre la ricerca del palpito vitale che è l’anima delle composizioni del salisburghese.

Il cast denota una buona tenuta generale. Alessandro Luongo è un Don Giovanni ormai navigato, e affronta la sua parte con disinvoltura e sicurezza sia nel tratteggio scenico che nel canto, con un fraseggio ben curato e una notevole attenzione alla parola, cesellata in un continuo oscillare fra scherzo e seduzione. La voce, dotata di un timbro non eccessivamente scuro, è ben proiettata anche se talvolta tende a perdere corpo in basso. Una prestazione comunque lodevole e convincente.
Suo degno compagno è il Leporello di Omar Montanari. La sala bolognese fa risaltare la screziatura dello strumento, sempre sapientemente usato. Attraverso un fraseggio curato, il baritono tratteggia un personaggio malinconico pur tra i suoi calibratissimi accenti buffi.
La Donna Anna di Ruth Iniesta è una piacevole sorpresa. La voce ha un timbro chiaro e non personalissimo. Ciò non le impedisce di piegare lo strumento a ogni intenzione espressiva, dalle parole più tenere a quelle ricolme di odio, passando per un racconto della seduzione narrato con languore, fino a un rassegnato “Crudele! … Non mi dir”, in cui il soprano brilla per padronanza tecnica.
Non meno agguerrita è la Donna Elvira di Raffaella Lupinacci. Dotata di una voce di buon volume, dal timbro scuro e sensuale, sfoggia un’ottima tecnica e una linea omogenea che, coniugate a un curatissimo fraseggio, le permettono di tratteggiare un personaggio sfaccettato e vivo. La sua resa di “Ah, fuggi il traditore!” rimane uno dei momenti migliori della recita per pregnanza vocale.
Più convenzionali appaiono gli altri. Il Don Ottavio di Davide Giusti risulta monocorde nell’espressione e legnoso nelle agilità, anche se dispone di un bel timbro ambrato e di una buona proiezione. Stefan Kocan è un Commendatore monolitico e potente, ma difetta in articolazione della parola. Roberto Lorenzi tratteggia con voce brunita un Masetto efficace, mentre Erika Tanaka è il classico soprano leggero dalla piccola voce chiara ma ben sostenuta che incarna una Zerlina ingenuotta e civettuola, nel complesso funzionale.
Un pubblico festoso e partecipe tributa grandi applausi sia dopo i numeri solistici che alla fine della recita, assicurando un esito trionfale agli interpreti e al direttore.

Teatro Comunale – Stagione d’opera 2018
DON GIOVANNI
Dramma giocoso in due atti KV 527
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart

Don Giovanni Alessandro Luongo
Il Commendatore Stefan Kocan
Donna Anna Ruth Iniesta
Don Ottavio Davide Giusti
Donna Elvira Raffaella Lupinacci
Leporello Omar Montanari
Masetto Roberto Lorenzi
Zerlina Erika Tanaka

Orchestra, Coro e Tecnici del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Jean-François Sivadier
ripresa da Rachid Zanouda/Federico Vazzola/Milan Otal
Scene Alexandre de Dardel
Costumi Virginie Gervaise
Luci Philippe Berthomé
Collaboratore alle luci Jean-Jacques Beaudouin
Trucco Cécile Kretschmar
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna
con Festival di Aix-en-Provence, Opéra National de Lorraine,
Théâtres de la Ville de Luxembourg
Bologna, 16 dicembre 2018

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