Corre l’anno 1892 e il desiderio di trovare un posto al sole nel quadro del neonato “melodramma delle aree depresse” (la definizione è di Rodolfo Celletti) spinge lo scapigliato Ruggero Leoncavallo a desumere dal modello di Cavalleria rusticana la materia prima per Pagliacci, suo primo – e unico – capolavoro. Una banale storia di corna e di coltelli ispirata a un fatto di cronaca, dove un marito violento uccide la moglie e l’amante di lei. Ma Leoncavallo intende andare oltre e punta a una elaborazione teatrale più complessa. Rispetto a Cavalleria, non si limita a raddoppiare i morti ammazzati: al triangolo amoroso aggiunge l’omicidio in diretta e l’idea di mescolare realtà e finzione portando la vicenda nell’ambiente degli attori girovaghi. Ne esce una moderna situazione di teatro nel teatro che lascia percepire il tentativo di attenuare la violenza verista con sovrastrutture intellettualistiche. In questo contesto rientra non solo la duplicità del trattamento musicale (enfasi vocale e strumentale da un lato, richiami aulici e stile galante dall’altro), ma anche il filo rosso che percorre l’intera partitura e rimanda all’eterno confronto fra i due opposti linguaggi del melodramma: l’opera seria e l’opera buffa.
Ora, può anche darsi che in Leoncavallo non ci sia piena consapevolezza delle implicazioni teoriche e pratiche connesse alle sue scelte. Resa il fatto tuttavia che, pur non avendo un’impronta realmente sperimentale, a Pagliacci non si possono negare una ricerca drammaturgica originale ed esiti scenico-musicali di indubbia presa. Non per niente, a livello rappresentativo, si è manifestata la tendenza a riconoscere in quest’opera-manifesto del verismo musicale seduzioni teatrali e premonizioni di un realismo più moderno, compresi spunti e suggestioni figurative tipici del cinema neorealista (come nel recente allestimento di Gabriele Lavia al Regio di Torino). Un’altra dimostrazione della vitalità e della capacità di stimolare interesse critico viene dalle letture, care al mondo teatrale d’oltralpe, che vi individuano anticipazioni delle tematiche espressioniste.
Che Pagliacci sia una delle poche opere veriste in grado di comunicare il fascino di un’inquietudine drammaturgica e di precorrere certe soluzioni del teatro novecentesco, lo conferma anche il fatto che un tradizionalista come Franco Zeffirelli ne ha dato letture diverse, arrivando a giocare – proprio lui – la carta dell’attualizzazione. Nel corso della sua carriera, l’ha ambientata nel profondo Sud dell’Italietta umbertina, quindi nell’Italia fascista alla vigilia della guerra, per arrivare all’allestimento ripreso in questi giorni al Teatro Filarmonico di Verona, dove la cornice cronachistica in cui si svolge la vicenda viene collocata tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Siamo in una periferia degradata del Sud Italia e dell’ambientazione agreste prevista nel libretto non c’è più traccia. Il fondo della scena è dominato dalla facciata di un imponente condominio a dimensione reale. Tutto è curato nei minimi dettagli: finestre e balconi ospitano scene di vita familiare, mentre al pianterreno trovano posto il Bar Centrale e un’officina fatiscenti. Sulla piazza antistante, tra una baracca di lamiera, un chiosco di bibite e la roulotte dei teatranti, pullula un campionario umano variegato e pittoresco: prostitute, travestiti, massaie, bulli, carabinieri, motociclisti, una coppia di sposi novelli, oltre naturalmente a pagliacci, saltimbanchi e giocolieri.
Come prevedibile, sia qui che nella rappresentazione delle maschere nel secondo atto – dominato scenograficamente da manifesti circensi con volti di clown –, l’affollamento è a tratti eccessivo. In più, mancando in questa ripresa l’intervento in prima persona di Zeffirelli, le numerose controscene e i movimenti delle masse non sono sempre così precisi e accurati, e resta l’impressione di una esplosione di colori e vitalismo fin troppo debordante. Nondimeno, si impone ancora una volta il forte impatto teatrale di una lettura capace di assecondare l’originale drammaturgia e i grovigli psicologici dell’opera, plasmando personaggi dalla convulsa ed esibita drammaticità. A costo di qualche sparsa forzatura e platealità, l’ambivalenza di amore e morte, sessualità e violenza, realtà e finzione emerge a tutto tondo.
Dal podio dell’Orchestra dell’Arena di Verona, Valerio Galli si misura con una partitura ricca di occasioni (sul versante della modernità, delle asprezze, dei contrasti, degli improvvisi cambiamenti d’umore) dimostrando di saperla affrontare con adeguata cognizione stilistica. Il giovane direttore prende le distanze dalla retorica verista di basso profilo, optando per una conduzione strumentale analitica, dinamicamente varia, capace anche di esplosioni drammatiche, ma senza perdere di vista le dinamiche attutite, le sfumature, il legato. In questo modo, Galli riesce a ottenere un equilibrio sostanziale tra lirismo e incandescenza.
Nel ruolo di Canio, per il quale trovo personalmente preferibili i timbri sensuali, dalle screziature brunite e quasi baritonali, Walter Fraccaro esibisce una voce piuttosto chiara e non molto consistente nel registro medio-grave. Questo significa che l’impeto di certe intenzioni drammatiche non trova sostanza vocale appagante nella tessitura più bassa. Gli acuti, viceversa, risultano pieni e ancora squillanti. Va anche detto che Fraccaro costruisce il personaggio e lo adatta ai suoi mezzi e al suo temperamento con accortezza, risultando nell’insieme credibile.
Anche Donata D’Annunzio Lombardi mostra di non avere la vocalità intensa e sensuale di un autentico soprano verista. La sua Nedda, comunque, è più che dignitosa, sicura nell’emissione, agile, musicalmente penetrante e partecipe, a suo modo emotiva.
Non molto coinvolgente quando a impatto vocale e timbrico, ma ben calibrato sotto il profilo espressivo, il Tonio di Devid Cecconi. Funzionale Federico Longhi nei panni di Silvio, l’innamorato patetico; efficace e sufficientemente morbido Francesco Pittari nella serenata di Arlecchino.
Teatro Filarmonico – Stagione Lirica 2016/2017
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e due atti
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda Donata D’Annunzio Lombardi
Canio Walter Fraccaro
Tonio Devid Cecconi
Silvio Federico Longhi
Beppe Francesco Pittari
Orchestra, Coro, Tecnici dell’Arena di Verona
Direttore Valerio Galli
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia e scene Franco Zeffirelli
Regia ripresa da Stefano Trespidi
Costumi Raimonda Gaetani
Direttore allestimenti scenici Giuseppe De Filippi Venezia
Verona, 22 gennaio 2017