Code interminabili, resse, schiamazzi. I musei non sono più luoghi avvolti da un’aura sacrale, nei quali entrare come in un tempio per ammirare concentrati e in silenzio le opere d’arte. Contro i risvolti più discutibili del marketing culturale si è scagliato qualche tempo fa niente meno che Jean Clair. I musei-mercato, secondo il celebre critico, “preferiscono l’amore di gruppo, per lo più chiassoso, e i trasporti di massa”. L’ideale è visitarli di notte. Trovata suggestiva, portata avanti da qualche assessore intraprendente e immaginificamente accostata, da alcuni registi di cinema e teatro, alla possibilità che di notte le statue si trasformino in esseri viventi e dai dipinti escano i personaggi storici. Tra le pellicole ispirate a questo filone vengono in mente Una notte al museo e i relativi sequel con Ben Stiller e Robin Williams, tra le produzioni operistiche ricordo I quatro rusteghi messi in scena da Davide Livermore alla Fenice.
L’idea è stata utilizzata anche da Arnaud Bernard nell’allestimento de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini realizzato dalla Fondazione Arena in collaborazione con la Fenice e la Greek National Opera, ripreso in questi giorni al Teatro Filarmonico di Verona. Memore forse del giudizio di Liszt (“un venerabile prodotto di scuola antiquata”), il regista francese considera questo titolo “un’opera da museo” che possiamo guardare a distanza “ma non riusciamo a toccare”, un lavoro drammaturgicamente irrisolto, sospeso tra una musica a tratti sublime e un libretto di modesto livello. Valutazione nel complesso condivisibile.
Felice Romani scrive il suo libretto nel 1825 per Giulietta e Romeo di Nicola Vaccaj e, cinque anni dopo, lo riadatta per Bellini modificandone il titolo. Della tragedia shakespeariana troviamo ben poco: il testo si concentra sulla parte conclusiva, isolando i due amanti dal contesto generale (le fazioni in lotta, la rissa e l’uccisione di Tebaldo, Romeo bandito da Verona) che viene relegato a semplice fondale. In compenso, c’è la scoperta dell’incontro furtivo dei due amanti da parte dei Capuleti, scena assente in Shakespeare, ma necessaria per elaborare il drammatico concertato del Finale primo.
La regia di Bernard, ripresa da Yamala-Das-Irmici, colloca quindi l’opera ai nostri giorni e si avvale di un contenitore scenico funzionale ed efficace firmato da Alessandro Camera (i bei costumi sono di Maria Carla Ricotti). Ad apertura di sipario, sulle note della Sinfonia – la cui tinta rossiniana spigliata e solare appare quasi in contrasto con il resto del lavoro – vediamo tecnici, saldatori, tappezzieri e addetti alle pulizie indaffarati nelle fasi di restauro e allestimento di un museo ottocentesco. Quando calano la notte e il silenzio, in una sorta di gioco fantasmatico, i personaggi di una tela rinascimentale invadono la scena e diventano i protagonisti della vicenda raccontata nell’opera.
L’intreccio tra il piano della contemporaneità, con le controscene a tratti invadenti degli allestitori del museo, e quello storico dei personaggi di Bellini e Romani continua nel corso di tutto lo spettacolo e non sempre risulta convincente nel calibrare, a livello di recitazione, realismo e stilizzazione. Suggestivo e di grande impatto il tableaux vivant della scena finale in cui si ricompongono i due piani narrativi ideati da Bernard: il rinvenimento dei due innamorati morti viene inquadrato da una enorme cornice dorata e la storia di Romeo e Giulietta ritorna a farsi pittura e opera da museo.
La conduzione ancora una volta è affidata a Fabrizio Maria Carminati, la cui lettura cerca di rintracciare nei Capuleti l’arco melodico e il tipo di declamato che alimentano i capolavori della successiva produzione di Bellini. Impresa non facile, considerato che qui armonia e orchestrazione sono ancora piuttosto elementari. Nell’edizione precedente il direttore aveva un po’ forzato l’interpretazione in senso romantico: le sonorità risultavano fin troppo intense e veementi, l’impeto qua e là eccessivo. Questa volta l’approccio mi sembra più calibrato, attento all’impianto belcantistico di alcune pagine e alla peculiarità di una strumentazione leggera, con chiaro vantaggio per il rapporto canto-orchestra. A eccezione della cavatina “Se Romeo t’uccise un figlio”, dove non guasterebbe un maggior abbandono, Carminati centra i tempi e le sonorità, cogliendo la tinta drammatica più appropriata per ogni situazione.
Nel cast spicca la Giulietta di Irina Lungu. In una parte che spesso si deve misurare con una tessitura centralizzante (e coincidente a tratti con quella di Romeo), il soprano esibisce adeguata corposità e rotondità di suono, oltre che un fraseggio ricco di pathos. Il personaggio viene dunque sottratto a ogni connotazione eccessivamente angelicata e diafana, e acquista consapevolezza e spessore drammatico. Naturalmente la Lungu si muove agevolmente anche in zona acuta e nei momenti in cui devono prevalere la dolcezza e l’eleganza del canto legato e portato. In regola anche con le agilità di grazia, è una Giulietta coinvolgente ed espressivamente spontanea.
Aya Wakizono affronta i panni en travesti di Romeo con una vocalità chiara, abbastanza timbrata nel registro medio-alto, ma poco consistente in quella bassa. E in un ruolo in cui Bellini sfrutta in più punti la pienezza del settore centrale e grave del contralto, questo è chiaramente un limite. Il fraseggio, di conseguenza, manca di ampiezza e solennità, oltre che di effetti coloristici appaganti. In alto le emissioni risultano più sonore e rotonde (tolti i si naturali della cabaletta del primo atto), mentre le agilità sono precise ma difettano di mordente. Nel tratteggio del personaggio alla Wakizono vanno comunque riconosciute una certa grinta e buone intenzioni espressive.
Tebaldo è Shalva Mukeria, che ha notoriamente un bagaglio tecnico e cognizioni stilistiche tali che gli consentono di muoversi in questo repertorio come nel suo elemento naturale. Tuttavia la scrittura gravita spesso su una tessitura centrale e a volte decisamente bassa, da tipico baritenore, finendo per mettere a disagio il cantante georgiano, le cui note gravi risultano piuttosto fievoli. In compenso, Mukeria esibisce emissioni corrette in zona medio-alta e si fa come sempre valere per il fraseggio sfumato e la precisione nei (non molti) tratti di agilità previsti.
Quanto ai due bassi – presenze di scarso rilievo nell’economia dell’opera e a cui Bellini affida una scrittura spianata – ho trovato decoroso Romano Dal Zovo (Lorenzo), nonostante la voce non sia proprio da basso profondo preromantico, e alquanto ruvido Luiz-Ottavio Faria nel ruolo di Capellio.
Teatro Filarmonico – Stagione Lirica 2016/2017
I CAPULETI E I MONTECCHI
Opera in due atti su libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Romeo Aya Wakizono
Giulietta Irina Lungu
Tebaldo Shalva Mukeria
Lorenzo Romano Dal Zovo
Capellio Luiz-Ottavio Faria
Orchestra, Coro, Tecnici dell’Arena di Verona
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Vito Lombardi
Regia Arnaud Bernard
ripresa da Yamala-Das-Irmici
Scene Alessandro Camera
Costumi Maria Carla Ricotti
Direttore allestimenti scenici Giuseppe De Filippi Venezia
Allestimento della Fondazione Arena di Verona in coproduzione con
il Teatro La Fenice di Venezia e con la Greek National Opera
Verona, 23 febbraio 2017