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Venezia, Teatro La Fenice – Un ballo in maschera

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Nelle sue opere Verdi ha la geniale capacità di presentarci gli uomini nella loro vera natura. E lo fa con un disincanto, venato di amarezza e pessimismo, che verrebbe da definire quasi leopardiano. La gamma dei sentimenti espressi è vastissima: non c’è che l’imbarazzo della scelta. Eppure, tra tanti, ce ne sono due che la sua musica ignora e non costituiscono mai il nucleo drammaturgico o il motore dell’azione: il disprezzo della diversità, in qualunque sua declinazione, e il razzismo. Non compaiono in alcuna opera, nemmeno in Otello, contrariamente a quanto succede in Shakespeare dove gli elementi propulsori sono proprio il razzismo e l’eros frustrato di Jago.
Certamente qualche traccia delle tirate politicamente scorrette della tragedia di Shakespeare si ritrova qua e là anche nei versi di Boito, così come nel libretto messo a punto da Antonio Somma per Un ballo in maschera spicca un’espressione quale “l’immondo sangue dei negri”, con cui Verdi e il librettista sottolineano e stigmatizzano, nel primo atto, il razzismo di un giudice americano. Si tratta comunque di pennellate occasionali, di tocchi esteriori: Verdi è estraneo a certe passioni e altri sono i temi che gli stanno a cuore.
Nel Ballo in maschera, per esempio, abbandonate le passioni civili e patriottiche delle opere risorgimentali, Verdi sceglie un soggetto convenzionale ambientato in un secolo “elegante e cavalleresco”. La sua simpatia va per la prima volta a un potente, una figura che incarna i valori della giustizia, del coraggio e della filantropia. Sullo sfondo di questa visione, il consueto triangolo amoroso tenore-soprano-baritono si intreccia a una cospirazione politica. Riccardo, governatore del Massachusetts, si colloca pertanto al centro sia del plot principale (il conflitto d’amore) che di quello secondario (la cospirazione). Il suo assassinio è la sintesi necessaria di una vicenda in cui passione amorosa e prassi politica sono strettamente unite, e dove alla fine l’illusione di un amore sublime, sofferto più che vissuto, si dissolve insieme con l’utopia del buon governo.

Nella nuova produzione che ha inaugurato la stagione 2017/18 del Teatro La Fenice, l’allestimento con la regia di Gianmaria Aliverta ribalta decisamente la prospettiva. Il movente della vicenda non è più la lotta fra impulso amoroso e principi morali, l’amore come forza eversiva che arriva come un fulmine a scardinare ogni ordine precostituito (“sia distrutto il rimorso, l’amicizia nel mio seno: estinto tutto, tutto sia fuorché l’amor”). In primo piano balzano il dramma politico e, soprattutto, il razzismo, che diventa il vero motore della congiura e di tutta la storia.
A questo scopo, il giovane regista – coadiuvato dallo scenografo Massimo Checchetto e dal costumista Carlos Tieppo – sposta la vicenda nella Boston negli anni ottanta dell’Ottocento, mentre Verdi, com’è noto, la colloca alla fine del Seicento. Considerato che nel finale del terzo atto campeggia la Statua della libertà, l’azione si svolge presumibilmente dopo il 1886, anno di inaugurazione del monumento. Siamo insomma a un ventennio di distanza dalla fine della terza guerra di secessione e dall’abolizione della schiavitù, anche se il problema del razzismo è più che mai drammatico e vivo nella società americana. Oltre ai politici, in scena agiscono esponenti dei poteri forti che si sono arricchiti sfruttando il lavoro degli schiavi e odiano profondamente il governatore, pronto invece ad attivarsi a favore del popolo e dei neri. Di qui la cospirazione.
Va da sé che non si tratta di una riscrittura drammaturgica. La scelta di privilegiare i temi della discriminazione e dell’intolleranza non incide sulla drammaturgia dell’opera e infatti Aliverta lascia di fatto invariati gli accadimenti e i rapporti tra i personaggi. Il clima di accentuato razzismo alimenta semplicemente un sottotesto utile a evocare suggestioni e atmosfere attinte da certo immaginario cinematografico: i punti di riferimento sono pellicole quali Lincoln di Spielberg, Django Unchained di Tarantino, Gangs of New York di Scorsese. Alla caleidoscopica favola romantica concepita da Verdi subentrano climi per lo più a tinte fosche, controscene di violenze e omicidi, croci bruciate e incappucciati del Ku-Klux Klan. Le scene sono giocate su pochi elementi: uno scalone e una balaustra per l’austera sala del governatore, una serie di specchi girevoli per l’antro di Ulrica, una tetra collinetta rotante per l'”orrido campo”. Se nei primi due atti, pur tra sparse ingenuità e qualche incongruenza, gli esiti sono nell’insieme passabili (il quadro più riuscito è quello di Ulrica), purtroppo il terzo atto è irrisolto sotto ogni profilo. La grande bandiera statunitense che fa da sfondo all’aria del tenore, la fiaccola e la testa della Statua della libertà collocate da Checchetto nella scena del ballo sono di fatto imbarazzanti, così come lo sono i costumi di Tieppo, mentre il giovane regista rivela notevole impaccio non solo nel gestire il coro, ma anche nel rendere credibile la scena della morte di Riccardo. Uno spettacolo, insomma, non all’altezza di una inaugurazione di stagione alla Fenice.

Il punto di forza di questa edizione veneziana è la direzione di Myung-Whun Chung. In sintonia con l’intenzione di Verdi di movimentare il dramma (“Passioni sopra tutto”), secondo un principio di varietà che accentua ulteriormente i caratteri di spontaneità, dinamismo scenico e ispirazione melodica della trilogia romantica, il maestro coreano asseconda il continuo trascolorare della musica: dai toni della commedia, a tratti ironica, al dramma cupo; dalle atmosfere cortesi francesizzanti a quelle di carattere popolaresco. Una lettura particolareggiata e di grande flessibilità di cui si intuiscono il lavoro svolto in profondità e la riflessione stilistica.
Chung differenzia i molteplici registri della partitura con un’ampia gamma dinamica e agogica, ma sa evitare nello stesso momento ogni rischio di frammentazione, ottenendo da un’orchestra della Fenice in ottima forma un suono sempre compatto e imprimendo coesione e tensione drammatica all’insieme. Riserva inoltre particolare attenzione allo spessore sinfonico di alcune pagine, staccando tempi a volte molto lenti, senza mai perdere di vista l’impulso e il mordente teatrale. Rimarchevole anche la sensibilità nel concertare con i cantanti: Chung sintonizza puntualmente l’orchestra con il peso delle voci e i respiri del fraseggio, mettendo a proprio agio ogni interprete. Le difficoltà dei cantanti non sono mai imputabili alla bacchetta.

Alterne le prestazioni del cast. Nel ruolo del protagonista figura Francesco Meli, il cui personaggio mi sembra sostanzialmente invariato rispetto all’edizione areniana del 2014: la resa vocale è più o meno la stessa e non si notano particolari approfondimenti nel fraseggio. I punti di forza del suo Riccardo sono ancora una volta la pienezza vocale, la bellezza e il calore del timbro, la dizione perfetta, la nobiltà espressiva che valorizza diverse pagine dell’opera. Come al solito, però, nel tratteggio del ruolo incidono anche lo squillo limitato di qualche estremo acuto, ma soprattutto la tendenza a una certa uniformità interpretativa: sia la corda espressiva amorosa che quella brillante e ironica non sempre risultano a fuoco per la limitata varietà degli accenti e l’emissione avara di tinte intermedie e mezzevoci, puntualmente sostituite da falsetti. Naturalmente, con quello che passa oggi il convento in materia di voci tenorili, il Riccardo di Meli è più che credibile.
Convince nel complesso il Renato di Vladimir Stoyanov. Certo il timbro del baritono bulgaro è un po’ anonimo e ha poco mordente, il volume è contenuto e gli acuti squillano poco, tuttavia il livello del canto risulta decoroso. Anche a livello interpretativo, pur non possedendo una spiccata personalità, Stoyanov si dimostra controllato nel fraseggio, nello stile, e non cerca mai di compensare i propri limiti con forzature e intemperanze.
Chi non persuade è Kristin Lewis, che ho stentato a riconoscere rispetto alle prime prove in cui l’avevo ascoltata quasi una decina d’anni fa. La sua Amelia è disuguale nella linea di canto e nell’emissione: le note basse sono spesso aperte e artefatte, i centri poco timbrati e gli acuti forzati. Se a questi limiti si aggiunge la dizione approssimativa, è chiaro che non bastano il temperamento drammatico e, qua e là, qualche buona intenzione per dare plausibilità al personaggio.
Suscita riserve anche la prova di Silvia Beltrami, cantante che ho trovato valida in altri contesti, ma che qui esibisce una vocalità che ha poco a che vedere, per spessore e colore timbrico, con quella contraltile richiesta da Ulrica.
La prova più completa, e più applaudita con entusiasmo dal pubblico, è quella di Serena Gamberoni, che delinea un Oscar ideale: agile e preciso nella vocalità, scenicamente animato e vivace.
Ben amalgamate le parti di fianco, a cominciare dai due congiurati, Samuel e Tom, interpretati da Simon Lim e Mattia Denti, per proseguire con il Silvano di William Corrò, il giudice di Emanuele Giannino e il servo di Amelia tratteggiato da Roberto Menegazzo. Eccellente la prova del coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Oltre alla Gamberoni, il pubblico della prima ha accolto con molto calore anche Meli e il maestro Chung. Applausi cordiali per tutti gli altri protagonisti.

Teatro La Fenice – Stagione lirica e balletto 2017/18
UN BALLO IN MASCHERA
Melodramma in tre atti
libretto di Antonio Somma
da Gustave III, ou Le Bal masquè di Eugène Scribe
Musica di Giuseppe Verdi

Riccardo Francesco Meli
Renato Vladimir Stoyanov
Amelia Kristin Lewis
Ulrica Silvia Beltrami
Oscar Serena Gamberoni
Silvano William Corrò
Samuel Simon Lim
Tom Mattia Denti
Un giudice Emanuele Giannino
Un servo d’Amelia Roberto Menegazzo

Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Fabio Barettin
Movimenti coreografici Barbara Pessina
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 24 novembre 2017

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