Ritorna con successo al Teatro La Fenice il bell’allestimento de La bohème ideato nel 2011 da Francesco Micheli: una cartolina che ci arriva idealmente dalla Parigi di fine Ottocento. Un sipario tempestato di lampadine inquadra in proscenio la soffitta del primo atto, richiamando in chiave bozzettistica e un po’ kitsch le sagome delle principali attrazioni turistiche della Ville Lumière.
Quando il sipario-cartolina si alza sul secondo atto, l’impianto scenico di Edoardo Sanchi trasmette l’idea di una capitale moderna e tecnologica in rapporto agli standard delle città dell’epoca: il coro e le comparse, per esempio, entrano in scena emergendo dalla metropolitana. Il palcoscenico viene quindi invaso da cartelloni pubblicitari e non mancano tocchi fauve e surreali.
I tratti della capitale effervescente e modaiola, centro di irradiamento delle avanguardie artistiche europee, si accompagnano anche a sparse pennellate di disagio ed emarginazione sociale evidenti in alcuni dei bei costumi firmati da Silvia Aymonino e, in particolare, nella recitazione nervosa e a volte parossistica dei protagonisti.
L’assunto su cui si fonda la regia di Micheli è che i bohémien pucciniani, e più in generale i giovani di fine Ottocento, agiscono in una condizione e in un contesto speculari a quelli dei giovani odierni. Schiacciati da una società di massa che impedisce loro di esprimersi e di trovare la propria strada, non sarebbero altro che dei bamboccioni ante litteram che si rifugiano nella goliardia e nel divertimento per sfuggire a una realtà frustrante e precaria. Trovata in sé suggestiva, ma a mio avviso non condivisibile, considerate le profonde differenze storico-culturali tra quell’epoca e i giorni nostri.
Intanto, nonostante Nietzsche avesse già annunciato la morte di Dio, il positivismo di fine Ottocento era pur sempre intriso di un messianesimo scientifico che prometteva un domani luminoso e felice. Scienza, utopia e voglia di rivoluzione proseguivano in forma laicizzata la visione ottimistica, intimamente cristiana, della storia. In quello scenario, non solo le prospettive e le aspirazioni, ma anche gli inevitabili problemi e le crisi dei giovani assumevano un altro significato. La gioventù attuale deve invece fare i conti con una crisi culturale più profonda, con un panorama che assume i contorni del deserto di valori e della mancanza di senso. La positività della tradizione cristiana è crollata insieme con le utopie e la fiducia nel progresso, lasciando il posto a una casualità priva di direzione e orientamento, a un’epoca di “passioni tristi”, quando non di analfabetismo emotivo.
Certo, il dolore e le crisi esistenziali appartengono al vissuto delle giovani generazioni di ogni periodo storico, ma è altrettanto vero che oggi i giovani si misurano con un senso di insicurezza e precarietà del tutto nuovo e, soprattutto, si trovano ad accogliere un “ospite inquietante” come il nichilismo che toglie loro prospettive e progettualità. Tutti elementi che, come osserva Umberto Galimberti, “fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà”.
Alla luce di queste considerazioni, trovo che l’equiparazione tra i bohémien pucciniani e i giovani d’oggi risulti forzata. Tant’è che Micheli, al di là di un certo nervosismo impresso alla recitazione dei cantanti, non fa percepire realmente sulla scena la sua idea di fondo. Inutile, del resto, caricare quest’opera di significati che non le appartengono. La bohème è un omaggio al mito della giovinezza: il mito di un’età felice (anche nei suoi risvolti infelici), che nell’ottica di Puccini viene assunta a paradigma della vita e non può che essere rimpianta amaramente, quasi le restanti fasi dell’esistenza si riducessero a una rassegnata, nostalgica sopravvivenza.
La direzione di Stefano Ranzani definisce nitidamente le rigorose strutture musicali di Puccini, senza nessuna concessione a languori e sentimentalismi. I ritmi sono spediti ma articolati in una dinamica adeguatamente ampia, la linea interpretativa è asciutta ma non arida. La narrazione procede così in modo incalzante, con un’animazione che sfiora la frenesia nelle scene di conversazione comico-brillante. C’è qualcosa di febbrile, nella lettura di Ranzani, che trasmette il senso di una gioventù che brucia e si consuma correndo rapidamente verso la tragedia. Data questa urgenza drammatica, non stupisce che i passi patetici e affettuosi manchino a tratti di calore e intimo abbandono.
Nel cast si segnala in primo luogo la prova di Matteo Lippi. Per quanto non rifinitissimo, il suo Rodolfo è indubbiamente migliorato rispetto ad altre Bohème ascoltate nelle scorse stagioni. Nel canto di conversazione, in particolare, l’accento e il fraseggio risultano più approfonditi. La voce, ben timbrata e gradevole, è più sicura nell’emissione, anche se qua e là i fiati dovrebbero essere calibrati meglio e il do della “Gelida manina” è voluminoso, ma non squillante. C’è ancora da lavorare, insomma, anche per ampliare la gamma delle sfumature e delle mezze tinte, nondimeno i progressi si notano e il personaggio è più che credibile.
Francesca Dotto canta con timbro chiaro e limitata risonanza: è mediamente corretta, ha qualche buona intenzione espressiva, ma le manca lo spessore lirico desiderabile per rendere l’espansività calda e intensa di Mimì. Anche la sorvegliata misura del fraseggio, pur apprezzabile, finisce per sottrarre intensità alla temperatura emotiva e sentimentale del ruolo.
Buona la prova di Mattia Olivieri nei panni di Marcello: la voce, dalle piacevoli inflessioni brunite, è ben sostenuta e controllata, capace quindi di piegarsi ad accenti vari. La presenza scenica è inoltre disinvolta e il personaggio trasmette un senso di spontaneità.
Laura Giordano è la tipica Musetta formato soubrette dalla vocalità chiara, esile e piuttosto fissa, che delinea una figura femminile spigliata ma poco sensuale. Non brillano nemmeno i restanti bohémien. William Corrò risulta sottotono rispetto ad altre occasioni: il suo Schaunard non è sempre fermo nell’emissione e forza qua e là nel registro acuto. Luca Dall’Amico, invece, tratteggia Colline con le consuete inflessioni timbriche artefatte e gutturali, anche se risolve l’aria della zimarra con una linea di canto abbastanza sorvegliata. Tra i comprimari, ricordo Matteo Ferrara nella funzionale caratterizzazione di Benoit.
Teatro La Fenice – Stagione lirica e balletto 2016/17
LA BOHÈME
Scene liriche in quattro quadri
Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henry Murger
Musica di Giacomo Puccini
Rodolfo Matteo Lippi
Marcello Mattia Olivieri
Schaunard William Corrò
Colline Luca Dall’Amico
Benoit Matteo Ferrara
Alcindoro Andrea Snarski
Mimì Francesca Dotto
Musetta Laura Giordano
Parpignol Bo Schunnesson
Venditore ambulante Dionigi D’Ostuni
Sergente dei doganieri Emiliano Esposito
Doganiere Umberto Imbrenda
Orchestra e coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Piccoli cantori Veneziani diretti da Diana D’Alessio
Regia Francesco Micheli
Scene Edoardo Sanchi
Costumi Silvia Aymonino
Light Designer Fabio Berettin
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 16 febbraio 2017