Chiudi

Torino, Teatro Regio – Manon Lescaut

Condivisioni

Per l’attuale riproposta della Manon Lescaut di Giacomo Puccini, il Teatro Regio di Torino ha pensato di rispolverare l’allestimento risalente al 2006 con le scenografie classiche di Thierry Flamand e i costumi settecento di Christian Gasc. Il comparto tecnico si incanala nel solco sicuro della tradizione e risulta assai piacevole all’occhio: gli archi impreziositi da stucchi, i fluttuanti tendaggi color crema, come pure il mobilio in stile rococò nella dimora di Geronte, ad esempio, sollevano commenti di ammirazione da parte del pubblico al levarsi del sipario. All’interno di tale impianto, non era difficile aspettarsi una regia pesantemente didascalica, ma quantomeno animata da una coordinazione assennata dei vari elementi. Vittorio Borrelli, che subentra qui alla regia dello spettacolo originariamente firmato da Jean Reno, evidenzia più di un problema sia nella gestione dello spazio scenico, sia nell’assecondare l’interazione tra i protagonisti. Il ridicolo spogliarello cui obbliga i due goffi protagonisti durante il duetto d’amore sfocia nel grottesco, per non parlare dell’esito addirittura calamitoso della rappresentazione del tentativo di fuga alla fine del secondo atto. Fortunatamente, la scena al porto di Le Havre riscatta parzialmente le precedenti defaillances, grazie a un’efficace e toccante sfilata delle prostitute condannate.

Gianandrea Noseda, come suo solito, dirige magnificamente, ma la scelta di determinate agogiche lascia qua e là interdetti. Durante i primi due atti, per l’appunto, la bacchetta è mossa da un’urgenza quasi oppressiva che vanifica la leggerezza associabile alla gioventù dei protagonisti. Noseda dà come l’idea di volere immergere l’orchestrazione in un’atmosfera precipitosamente drammatica, a presagire gli esiti nefasti cui approderà la vicenda. Purtroppo, in una visione di questo tipo, vengono a mancare l’abbandono, il languore e la seduzione che, invece, dovrebbero risultare quasi fisicamente palpabili. Va da sé che, giunti al terzo atto, una tale concezione si uniforma allo sviluppo drammaturgico, allineandosi perfettamente al mutamento della tinta narrativa, e così via fino alla conclusione dell’opera.

Nei panni di Manon, Maria José Siri rinnova solo in parte la buona impressione destata con la Butterfly scaligera di qualche mese fa. In quel contesto, il lungo periodo di preparazione del ruolo unitamente a un’impostazione visiva tutta giocata sulla postura e sulla mimica facciale avevano portato l’artista a risultati più che dignitosi, evidenziando un controllo vocale e una sicurezza scenica che qui paiono complessivamente inferiori. Lo strumento, sebbene timbricamente poco privilegiato, regge la tessitura, mentre l’emissione si mantiene salda soprattutto in acuto, dove il suono, pur lievemente fischiante nei si e nei do, punge a sufficienza. La dizione, invece, risulta poco articolata e perciò scarsamente comprensibile. I primi due atti vedono la Siri giocare di rimessa, ma tale problema, nel suo accomunare il protagonista maschile, è quasi certamente imputabile alla direzione. Le “trine morbide” sono, al contrario, piuttosto rigide e frettolose, mentre i delicati arabeschi vocali che ornano “L’ora, o Tirsi” necessiterebbero di ben altra definizione. Tuttavia, la situazione migliora e si assesta su un livello soddisfacente negli atti successivi. Nel terzo, in particolare, la cantante assume un atteggiamento più sicuro che si traduce in una vocalità ben focalizzata e che culmina, al quarto atto, in una resa sentita e convincente della grande aria “Sola, perduta, abbandonata”.
Gregory Kunde, in un ruolo che parrebbe molto distante dalle sue attuali possibilità scenico-vocali, compie l’ennesimo miracolo nel piegare la propria voce, talvolta non senza una certa fatica, alle esigenze della parte. Il suo Des Grieux sboccia nei toni eroici che caratterizzano la scena della deportazione, dove il registro alto, pur senza sfavillare, risuona solido e centrato; altrove, e segnatamente nell’arioso del primo atto e nel duettone al secondo, la senilità del timbro gioca a sfavore dell’”amoroso pucciniano”, sacrificandolo. Ciononostante, alla resa dei conti, la musicalità profusa ovunque è tanta e tale da sedurre persino l’orecchio più critico.
Dalibor Jenis (Lescaut) ha voce di baritono squillante, ma linea di canto abbastanza spartana che, tuttavia, bene si sposa alla marzialità e a certa guasconeria del personaggio.
Il migliore in campo è senz’altro il Geronte di Carlo Lepore: è vero, si tratta di un ruolo minore e, per così dire, “di carattere”, ma questo fior di voce non passa di certo inosservato. Il timbro di basso scuro e pastoso, la pronuncia chiarissima e le intenzioni interpretative compongono un ritratto eccellente del burbero cicisbeo.
Le parti di fianco sono numerosissime e tutte ottimamente realizzate, ma non posso esimermi dal citare almeno lo strepitoso gruppetto di musici, dal quale emerge la vellutata voce solista del mezzosoprano Clarissa Leonardi.
Sempre professionale il Coro del Teatro Regio, appena sopra le righe quanto a “rumorosità” nelle scorribande iniziali.

Teatro Regio – Stagione Opera e Balletto 2016/2017
MANON LESCAUT
Dramma lirico in quattro atti
dal romanzo Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine François Prévost
Musica di Giacomo Puccini

Manon Lescaut Maria José Siri
Renato Des Grieux Gregory Kunde
Lescaut Dalibor Jenis
Geronte di Ravoir Carlo Lepore
Edmondo Francesco Marsiglia
Un sergente degli arcieri/L’oste Dario Giorgelè
Il Maestro di ballo Saverio Pugliese
Un musico Clarissa Leonardi
Un lampionaio Cullen Gandy
Un comandante di marina Cristian Saitta

Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Regia Vittorio Borrelli
Scene Thierry Flamand
Costumi Christian Gasc
Luci Andrea Anfossi
Movimenti mimici Anna Maria Bruzzese
Allestimento Teatro Regio
Torino, 19 marzo 2017

image_print
Connessi all'Opera - Tutti i diritti riservati / Sullo sfondo: National Centre for the Performing Arts, Pechino