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Roma, Teatro dell’Opera – La damnation de Faust

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Per l’apertura della nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma, il sovrintendente Carlo Fuortes e il direttore artistico Alessio Vlad puntano su Hector Berlioz. Lo fanno con un team creativo di straordinario talento, un cast di lusso, un direttore di chiara fama, e sfoggiando il meglio delle compagini corali e orchestrali. Scommettono su un titolo non dichiaratamente operistico, vincendo senza riserve. Nonostante qualche contestazione del pubblico, di cui gli spettacoli più arditi non sono mai privi, unicamente nei confronti della regia, la serata di apertura ha dimostrato che l’Opera di Roma seguita ancora a vantare una centralità culturale e artistica nel panorama musicale italiano.

La damnation de Faust nasce come composizione sinfonica, divisa in quadri giustapposti e concepita senza un’interna coerenza drammaturgica. Questi elementi non hanno impedito, fin dall’Ottocento, di trasportarne la vicenda con successo sulle tavole dei palcoscenici. Damiano Michieletto, che in questa occasione ne ha curato la regia, non si è fatto limitare dalla struttura “concertistica”, ma ha piuttosto utilizzato questo stesso schema per distruggerla, liberando dalle sue ceneri una magnifica fenice. La coerenza della concezione di Michieletto infatti è totale. Spesso capita di incontrare, in campo operistico, idee registiche innovative che però si neutralizzano nel medesimo istante in cui dimenticano l’oggetto della loro stessa creazione. Dimenticano, cioè, che l’opera ha alcune regole non canonizzate, non inviolabili, ma ugualmente rigide e vincolanti. Michieletto lo sa e ne fa un cardine per le sue idee, senza sminuire il ruolo degli interpreti, ma anzi potenziandolo e dando loro una maggiore forza e un campo di indagine espressiva ben più ampio e variegato dell’ormai ridicola disposizione tradizionale e, soprattutto, dei vetusti atteggiamenti melodrammatici. Rompe gli schemi chiedendo agli interpreti una verità – indagata dalla steadycam – difficile da esprimere, ma necessaria alla storia raccontata nella sua idea del mito romantico: Faust è un ragazzo dalla esistenza difficile, allietato solo dai ricordi familiari, afflitto da un padre alcolizzato e bullizzato a scuola, cui non rimane che il suicidio, gettandosi da un cornicione: il volo della morte è quindi spaventosamente coerente con la discesa agli inferi.
La scena di Paolo Fantin ricorda una enorme scatola, una di quelle con gli scomparti segreti utilizzate dagli illusionisti per nascondere o svelare oggetti al pubblico. Grazie a due pareti mobili e allo schermo centrale, vengono appunto nascosti o svelati luoghi, situazioni e personaggi, per mezzo di un continuo alternarsi di apertura e chiusura. La molteplicità narrativa e il dialogo fra azione e racconto, fra idea e atto, sono resi soprattutto da un uso efficace e integrato dei video curati nel minimo dettaglio e realizzati da Roca Film di Carmen Zimmermann e Roland Horvath con l’idea di fondere insieme i due mondi del teatro e del cinema. L’azione si svolge nella parte anteriore del palco che si trasforma, di volta in volta, da stanza a scuola di Faust, dall’alcova di Marguerite al giardino di delizie alla Bosch, appositamente allestito da Méphistophélès in veste di malvagio serpente, da ospedale a night club. In alto ci sono i seggi del coro (rosa dei beati, giuria, fedeli?): isolato in un luogo, insomma, da cui può osservare, giudicare e condannare. Il colore principale è il bianco, sottolineato dalle luci fredde e totalizzanti di Alessandro Carletti. Tale resta la scena fino al finale, quando l’equilibrio cromatico è invertito, coerentemente con lo svolgersi della vicenda: il nero delle mani del malvagio si estende a tutto lo spazio. I colori però non mancano, ma anzi spiccano e fanno irruzione, spesso replicandosi nelle diverse identità dei personaggi, grazie ai costumi essenziali di Carla Teti: rosso per Marguerite, verde-grigio per Faust, azzurro paillettato per Brander, mentre Méphistophélès, tolto l’abito da serpente, veste sempre di bianco. Una divisione cromatica che si manifesta anche negli oggetti e negli apparati scenici legati ai personaggi, come le altalene rosse di Marguerite, o il verde del giardino e delle divise da infermiere nella scena dell’ospedale.

Daniele Gatti dirige con stile e gusto, scegliendo una lettura nitida dei timbri orchestrali e delle dinamiche, favorendo le mezze voci degli interpreti con i pianissimi strumentali, ma liberando nei brani corali tutta l’energia accumulata, con uno smalto e una destrezza degni di nota. Il coro, che tanta parte ha in questo titolo, ha saputo ancora una volta dimostrarsi all’altezza dell’impegno e delle aspettative, grazie alla sapiente guida di Roberto Gabbiani.

I quattro interpreti hanno dato il meglio sul fronte scenico, senza sacrificare nulla di quello musicale. Il Faust di Pavel Černoch possiede il physique du rôle del giovane poeta contemporaneo, un po’ sognatore, un po’ nerd, e ha interpretato con convinzione il suo ruolo, favorito dal colore lunare della sua voce, ben timbrata al centro, nonché dal fraseggio delicato. Il vero motore di tutta l’azione è però il Méphistophélès di Alex Esposito: graffiante, ironico, convincente, malvagio al punto giusto, mai statico eppure mai inutilmente dinamico. La naturale propensione per una interpretazione al di fuori dagli schemi operistici lo porta a volte a sacrificare la correttezza dell’emissione, senza però mai perdere la rotondità della voce, la scaltrezza scenica e la musicalità che ne fanno un demone perfetto.
Veronica Simeoni debutta nell’arduo ruolo di Marguerite con competenza e professionalità, oltreché con voce brunita e un attento fraseggio. Interpreta in maniera convincente persino di fronte alla telecamera che ne mette in luce ogni espressione, come fosse un’attrice cinematografica. Esegue ogni indicazione registica con la stessa partecipazione e precisione con cui canta l’amore nelle sue differenti declinazioni. Anche il Brander di Goran Jurić sta al gioco e canta senza difficoltà il suo Couplet giocando a vestire gli abiti del cantante da night club. Il dinamico equilibro fra tutti ha dato vita a uno spettacolo interessante, intelligente e apertamente fuori dagli schemi. Aria nuova anche a Roma.

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione 2017/18
LA DAMNATION DE FAUST
Leggenda drammatica in quattro parti
Libretto di Hector Berlioz e Almire Gandonnière
da Johann Wolfgang Goethe tradotto in francese da Gérard de Nerval
Musica di Hector Berlioz

Faust Pavel Černoch
Méphistophélès Alex Esposito
Marguerite Veronica Simeoni
Brander Goran Jurić

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Video Roca Film
Movimenti mimici Chiara Vecchi
Nuovo allestimento in coproduzione con Teatro Regio di Torino
e Palau de Les Arts Reina Sofía di Valencia
Roma, 12 dicembre 2017

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