Sarà che il ponte dell’Immacolata invita alle gite fuori porta, sarà che Sant’Ambrogio convoca i melomani alla Scala (fisicamente o per interposto teleschermo), sarà che l’idioma francese mette spesso il prurito allo spettatore italiano medio, fatto sta che al Teatro Valli le poltrone vuote per la “prima” del Faust di Gounod si contano numerose. Ed è un peccato, perché, pur senza stregare, lo spettacolo è gustoso: quando vuole, la premiata ditta emiliana che produce l’allestimento – Modena-Piacenza-Reggio Emilia (in rigoroso ordine alfabetico) – le cose le sa fare bene.
La scelta più azzeccata è quella del direttore d’orchestra. Jean-Luc Tingaud è uno specialista del teatro musicale francese dell’Ottocento, sia di repertorio che di nicchia, e si sente. Per la sua lettura adopera lenti da opéra comique: schiva le tentazioni di magniloquenza che la scrittura di Gounod dissemina qua e là, e impiega un eloquio raffinato, costruito sulla cura della dizione e del fraseggio orchestrali, sulla trasparenza degli impasti timbrici, sulla fluidità delle transizioni dinamiche. Edonismo e religiosità, ovvero i due poli sui quali si regge Faust, ne escono ugualmente esaltati: l’esempio più eloquente lo fornisce la terribile scena nella chiesa (che in questo allestimento è collocata dopo la morte di Valentin), dove preghiera e bestemmia, peccato e redenzione si mescolano in modo mirabile. E così, per una volta, l’Orchestra dell’Opera Italiana si fa un po’ francese: archi e legni lievi e pastosi, ottoni garbati e squillanti, percussioni leggere e nette. Sul medesimo indirizzo interpretativo si muove il Coro del Comunale di Modena, a dir il vero non sempre perfettamente appiombo, ma certamente apprezzabile per dosaggio dei volumi e dei colori.
Molto meno francese, invece, è la compagnia di canto. Nessuno dei solisti è madrelingua, e ognuno, chi più chi meno, mostra una pronuncia difettosa: vien da ridere nel sentire Faust che, alla sua bramata Marguerite, invece che chiedere «toujours seule?» (sempre sola) domanda «toujours sale?» (sempre sporca). Ma si sa che questo, purtroppo, è un male comune: e, così, volenti o nolenti, ci si tura un orecchio e si tira avanti. Francesco Demuro tratteggia un Faust giovanile e volitivo, con emissione netta, timbro squillante e tenuta lodevole, specie nelle regioni acute: le pagine meglio riuscite della sua parte sono quelle di spiccato patetismo. Méphistophélès è il ciclopico basso georgiano Ramaz Chikviladze: nudo dalla cintola in su, tiara nera e calzamaglia gialla, adopera con sapienza una voce imponente per farsi satiro osceno che affascina e irretisce, sbeffeggia e tormenta. I panni di Marguerite li indossa il soprano spagnolo Davinia Rodriguez. Il suo timbro cupo e intubato lascia perplessi, ma la traggono d’ambasce una tecnica solida e un carattere drammatico robusto: più che nell’applaudita aria dei gioielli, dove si vorrebbe quella brillantezza che la natura le ha negato, si fa apprezzare nel tormentato dialogo con Méphistophélès all’interno del tempio. Convince Benjamin Cho, che riesce a dare buon vigore alla parte un po’ sciapa di Valentin, mentre Nazomi Kato tratteggia un Siebel adeguato a livello vocale, ma macchiettistico per mosse scattose e smorfie esagerate. Meritevoli anche Matteo Ferrara nei panni di Wagner e, soprattutto, Shay Bloch, che fornisce un ottimo contributo alla buona riuscita del quartetto rigolettiano del terz’atto.
Dalla messinscena, fin dalla vigilia, ci s’aspetta molto. A firmarla è Anagoor, collettivo veneto specializzato nel teatro di prosa, particolarmente apprezzato per i suoi approcci drammaturgici sperimentali e plurilinguistici. Nelle note affidate al programma di sala il regista Simone Derai dichiara di voler risalire alla fonte, e affrontare Gounod attraverso Goethe. Scene e costumi, in effetti, collocano in modo inequivocabile la vicenda nella Germania del Cinquecento: i personaggi si muovono entro una spazio fisso, costituito da una scatola lignea in odore di luteranesimo per candore ed essenzialità. Se si osa poco a livello scenografico, ancor meno lo si fa in ambito registico, con una lettura della vicenda tanto trasparente quanto squisitamente tradizionale. Tutta la sperimentazione, di fatto, è relegata fuori dall’opera. Fra un atto e l’altro, su uno schermo che fa da sipario, vengono proiettati cortometraggi che danno voce a proto-narrazioni incentrate su alcuni dei grandi temi filosofici sottesi alla tragedia di Faust: la vecchiaia, la religione, il sesso… Le immagini sono splendide e di una potenza spesso lacerante, ma l’intera operazione, a lungo andare, risulta ridondante e pretenziosa, tant’è che si guadagna non pochi rimbrotti da parte della platea. Gli intervalli, in fin dei conti, non sono «spazi vuoti» (così scrive Derai) da riempire a piacimento, bensì pause obbligate, che servono al pubblico per allentare l’attenzione nei confronti di una forma di spettacolo già oltremodo piena qual è l’opera.
Teatro Municipale Valli – Stagione d’Opera 2017/2018
FAUST
Dramma lirico in cinque atti di Jules Barbier e Michel Carrè da “Faust” di Goethe
Musica di Charles Gounod
Faust Francesco Demuro
Méphistophélès Ramaz Chikviladze
Marguerite Davinia Rodriguez
Valentin Benjamin Cho
Siebel Nozomi Kato
Wagner Matteo Ferrara
Marthe Shay Bloch
Orchestra dell’Opera Italiana
Coro della Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Jean-Luc Tingaud
Maestro del coro Stefano Colò
Regia Simone Derai
Progetto scenico Anagoor
Scene e costumi Simone Derai e Silvia Bragagnolo
Luci Lucio Diana
Video Simone Derai e Giulio Favotto
Nuovo allestimento – Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena,
Fondazione Teatri di Piacenza, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Reggio Emilia, 7 dicembre 2017