L’innocenza perseguitata e la virtù premiata, lo smarrimento, la paura e la persecuzione, il coraggio, la perseveranza e il trionfo della giustizia. È materia romanzesca, appassionante e appassionata quella che dà sostanza e consistenza a Torvaldo e Dorliska, tappa significativa nella formidabile parabola artistica di Gioachino Rossini: prima opera appositamente scritta per Roma, dove debutta al Teatro Valle il 26 dicembre 1815; prima collaborazione con il librettista Cesare Sterbini, che meno di due mesi dopo avrebbe firmato anche il testo poetico di Almaviva o sia L’inutile precauzione; e soprattutto primo approccio con il genere semiserio, quella terza via del melodramma italiano di primo Ottocento cui il Pesarese avrebbe dato ancora due contributi fondamentali con La gazza ladra e Matilde di Shabran. Ci sono dunque parecchi motivi di interesse intorno a questo titolo desueto del catalogo rossiniano, che s’incunea tra il trionfo partenopeo di Elisabetta regina d’Inghilterra e il debutto del Barbiere di Siviglia, per giustificare l’odierna ripresa, al Rossini Opera Festival, della produzione del 2006: in quel piccolo scrigno che è il Teatro Rossini, praticamente coevo al dramma semiserio perché inaugurato dal musicista stesso con La gazza ladra il 10 giugno del 1818.
A differenza dei titoli che appartengono ai due generi maggiori, quello serio e quello buffo, l’opera semiseria richiede forse spiccata adesione ai codici espressivi di una sensiblerie che si schiude all’incipiente Romanticismo e ne assapora lacrime e sangue, prima del sorriso finale. È difficile, per lo spettatore contemporaneo, piegarsi a un meccanismo a orologeria – oggi certo prevedibile – fatto di improvvisi colpi di scena e fulminei rovesciamenti dei rapporti di forza, di una medietas che scaturisce dalla comprensione dei rivolgimenti della Rivoluzione francese come degli alterni ricorsi della storia, e che progressivamente scopre e assimila la straordinaria ricchezza – umana, prima ancora che drammaturgica – del dramma shakespeariano. Per questo era difficile immaginare lettura più calzante e poetica di quella proposta da Mario Martone, che s’era già cimentato con l’impianto narrativo semiserio nel 2004, sempre a Pesaro, in occasione di Matilde di Shabran; e che negli anni sarebbe diventato cultore della storia patria risorgimentale, raccontata in Noi credevamo e Il giovane meraviglioso. Come nella Shabran l’aureo isolamento del misogino Corradino veniva sintetizzato in una tortuosa scala a chiocciola a forma di inespugnabile torre, così questa volta l’idea di partenza è che il castello del Duca d’Ordow, in cui ha luogo l’azione, sia l’intera sala del teatro, sicché il pubblico – che peraltro trova posto anche a strada e a corte del palcoscenico – non ne è semplice spettatore ma attivo, partecipe protagonista: quasi a voler ricordare che il genere semiserio veniva spesso cavato da un fait divers, da semplici avvenimenti di cronaca contemporanea. Limine della scena è il palcoscenico stesso, bloccato da un cancello che costituisce una sorta di nec plus ultra tra l’umanità varia, che abita il maniero, e un bosco tenebroso e fronzuto: intuizione semplicemente geniale dello scenografo Sergio Tramonti, perché da questa selva oscura irrompono tutti i personaggi seri, perduti, smarriti nel cammino delle loro vite e incapaci di ritrovare la retta via, se non dopo il superamento delle prove che costellano la vicenda. La Polonia, che fa da sfondo a una tetra vicenda di soprusi e di riscatto, è terra di spartizioni e di occupazioni straniere, luogo dell’anima di un Medioevo immaginario fatto di armature e cavalieri impennacchiati, guerre intestine e amori improvvisi, passioni devastanti e delitti impuniti. Dentro il castello, nella sala, con gli spettatori trovano posto solo i personaggi buffi, Giorgio e la sorella Carlotta, oltre al coro, che tutti ci rappresenta, nell’arco di una giornata, scandita dagli scarti cromatici delle luci di Cesare Accetta, fino alle tenebre che si tingeranno di rosso e di rivolta. Tra questo e quel mondo trova posto il carcere, luogo della prova: della tortura cui viene sottoposto l’innocente Torvaldo, della persecuzione perfidamente ordita dal Duca d’Ordow. Martone sceglie la strada di un racconto asciutto ed essenziale, perfettamente leggibile, mirabilmente supportato dai sontuosi, fastosi costumi di Ursula Patzak: con intuizioni particolarmente felici, come durante la cena-interrogatorio che il tiranno impone a Dorliska e che pare anticipare i passaggi più torbidi del secondo atto di Tosca. Torvaldo e Dorliska diventa, per Martone, cartina di tornasole attraverso la quale narrare una pagina minore ma non minima di un’Europa che non si sottomette alla Restaurazione come di un’Italia pronta a imboccare la via del Risorgimento: sicché apre il secondo atto con un lancio di volantini rossi dal loggione con l’ironico acronimo “Viva R.O.S.S.I.N.I.”, sapida citazione dell’indimenticabile incipit di Senso di Visconti; e lo suggella quando esplode la ribellione e servi e contadini, armati di falci e rastrelli, sono pronti a sforzare le porte della prigione per abbandonarsi a una minuscola presa della Bastiglia, foriera di un nuovo ordine sociale fondato sulla libertà e sulla pace.
Benché radicalmente diversa negli esiti dalla precedente edizione pesarese dell’opera, il grand cru 2017 appare di primissimo piano. Se si cita per prima l’ottima prova di Salome Jicia, è perché la sua Dorliska s’impone per il calore di un timbro personalissimo, ambrato, brunito e vellutato, governato in maniera impeccabile: durante la grande Aria del secondo atto, «Ferma, costante, immobile», drammatici scarti di registro, veemente coloratura di forza e una spiccata, autorevolissima presenza scenica ne fanno un’autentica, vibrante eroina tragica, imprevedibile punto di equilibrio tra la fluviale facilità tecnica di una Bartoli e l’altera, nobile fierezza della Antonacci. La sua Dorliska non è più pavida vergine concupita, ma diventa donna volitiva e risoluta eppur capace dell’estremo abbandono nel fervido Duettino che schiude il Finale. Ma firma una prova di prim’ordine, al suo fianco, anche Dmitry Korchak, che in Torvaldo sembra trovare uno dei suoi ruoli di elezione: lo slancio nobile e aristocratico di uno squillo eroico e la morbidezza estatica del legato sono le qualità principali di un interprete che brilla nel canto a fior di labbra della sua Aria di congedo, «Dille che solo a lei», in cui appare semplicemente prodigiosa la varietà di accenti esperita per quella prima parola – accorato richiamo alla donna amata, nel momento dell’estrema, temuta separazione – ripetuta con languore, struggimento, rimpianto. Sa essere amoroso, diventerà eroe: dei due aspetti del personaggio coglie l’essenza e la traduce con impeto spavaldo e un sapiente gioco di chiaroscuri e sfumature.
Le due voci scure sintetizzano gli estremi dell’essere umano: il buono e il cattivo, l’onesto e il corrotto. Il primo tipo viene incarnato dall’umanissimo, toccante Giorgio di Carlo Lepore, perfettamente a suo agio tanto nei sillabati quanto nelle più lunghe arcate melodiche in cui traspare affetto e dedizione per i due protagonisti, colpiti dalle avversità del destino. C’è da rimpiangere che, sfruttando le potenzialità dell’edizione critica di Francesco Paolo Russo, non si sia pensato di recuperare la versione approntata dallo stesso Rossini per il Teatro Nuovo di Napoli nel 1818: perché il ruolo di Masiello Strummolo, introdotto per l’occasione, avrebbe costituito un’interessante opportunità per l’eccellente buffo partenopeo. Anche così, tuttavia, Lepore tratteggia con vigoria di tratti un personaggio che sta a metà strada tra il Leporello mozartiano e il Rocco beethoveniano, tra il servo scansafatiche e il protettore paterno e comprensivo. La seconda categoria è invece efficacemente rappresentata da Nicola Alaimo, che nel ruolo del Duca d’Ordow assicura un’interpretazione a un tempo personale e accattivante. Lo strumento timbratissimo, torrenziale, vigoroso, gli consente infatti di delineare un personaggio granitico, minaccioso, vendicativo; al tempo stesso, tuttavia – e qui emerge la grandezza dell’interprete – l’insana, proibita passione per Dorliska, nonché la naturale propensione al delitto lo portano a una fragilità che traspare dal modo in cui carezza la mano dell’amata, dal timore verso un mondo che preferisce dominare, per evitare il confronto. Semplicemente memorabile è la grande scena finale, quando viene catturato e tratto in ceppi: perché il basso-baritono palermitano, con un accorto gioco di accenti, trasforma la sua superba Aria, «Ah qual voce d’intorno rimbomba?» – in cui per la prima volta compare il materiale tematico che accompagnerà l’Aria di Assur nel secondo atto di Semiramide – in un’attanagliante scena della pazzia, dove la coloratura sgorga incalzante per farsi allucinata rievocazione dei misfatti perpetrati e accorata invocazione di una morte liberatoria. Rimane da dire, ancora, della superlativa Carlotta di Raffaella Lupinacci, che mette a profitto un’aria da sorbetto per mettere in luce una vocalità doviziosa e una calorosa partecipazione scenica, e dell’accorto Ormondo di Filippo Fontana, acrobatico nell’intonare la sua Aria mentre s’arrampica su un albero di pero, preziosa metafora di chi troppo vuole e nulla stringe. Nei brevi interventi in cui figura, si disimpegna con efficacia il Coro del Teatro della Fortuna “Mezio Agostini”, puntualmente preparato da Mirca Rosciani.
Alle umbratili sorti di questo Rossini semiserio è chiamata a dar corpo la duttile Orchestra Sinfonica G. Rossini, affidata alle cure di Francesco Lanzillotta: che si mostra sensibile a evidenziare le radici europee di un fenomeno che, ormai da un cinquantennio, dilagava dalla letteratura al teatro musicale. E queste radici rintraccia in una tinta autunnale, quasi schubertiana, che lo porta a rafforzare il continuo (vaporosamente sostenuto da Gianni Fabbrini, con il contributo determinante del violoncello di Anselmo Pelliccioni) per ricercare un’ampia articolazione dei recitativi; e ad approfondire la tavolozza di strumenti concertanti che punteggiano una vocalità impervia per squadernare e ampliare l’orizzonte psicologico dei personaggi. Ne deriva un racconto dai toni epici, dipanato con una semplicità persuasiva e convincente, con un’urgenza espressiva che perfettamente coglie la natura romanzesca e romantica dell’opera: restituendo credibilità musicale a un genere che non vuole rispecchiare la realtà ma immaginare il migliore dei mondi possibili. Rossini ci credeva, per una sera vogliamo crederlo anche noi.
38° Rossini Opera Festival
TORVALDO E DORLISKA
Dramma semiserio in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Francesco Paolo Russo
Duca d’Ordow Nicola Alaimo
Dorliska Salome Jicia
Torvaldo Dmitry Korchak
Giorgio Carlo Lepore
Carlotta Raffaella Lupinacci
Ormondo Filippo Fontana
Orchestra Sinfonica G. Rossini
Coro del Teatro della Fortuna “Mezio Agostini”
Direttore Francesco Lanzillotta
Maestro del coro Mirca Rosciani
Regia Mario Martone
ripresa da Daniela Schiavone
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Cesare Accetta
Pesaro, Teatro Rossini, 12 agosto 2017