Il cantiere delle edizioni critiche ossia la storia infinita. È trascorso quasi mezzo secolo dall’avvio della monumentale impresa editoriale, che ha portato alla creazione dell’edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, promossa dalla Fondazione Rossini di Pesaro e passata al vaglio della scena, contestualmente, grazie alle produzioni del Rossini Opera Festival. Il lavoro di studio precede e segue l’allestimento delle opere, ineludibile momento di verifica di quanto approntato sul piano critico-filologico: ma è un laboratorio che difficilmente si conclude, come testimonia La pietra del paragone, da ieri sera in scena all’Adriatic Arena come secondo titolo del cartellone 2017. Con grande ironia, Patricia B. Brauner, co-curatrice insieme ad Anders Wiklund dell’edizione critica del melodramma giocoso, sposa una richiesta del Cavalier Giocondo a Macrobio, «Insomma, vuoi tu finirla, o no?», per aggiornare sullo stato di avanzamento dei lavori rispetto all’ultima ripresa pesarese dell’opera, quindici anni or sono: e per questo sciorina un catalogo di undici copie manoscritte della partitura e due manoscritti incompleti, quattordici copie di pezzi singoli più due di un’aria alternativa per la ripresa veneziana del 1812, fino ad affrontare la complessa questione degli spartitini, piccole partiture addizionali contenenti passaggi orchestrali che non trovavano spazio sufficiente sulla carta da musica. È, insomma, una storia praticamente infinita, che però ogni volta permette di riscoprire un volto nuovo dell’opera: facendo così comprendere quanto ormai la nozione di volontà dell’autore sia stata soppiantata dalla ricchezza del materiale documentario, preziosa testimonianza della vitalità di un’opera sul palcoscenico, ogni volta in forme mutevoli e leggermente diverse.
Nel corso dell’ultimo quindicennio, peraltro, La pietra del paragone – grazie soprattutto ad alcuni allestimenti storici, tra cui quello memorabile di Giorgio Barberio Corsetti e Pierrick Sorin – ha guadagnato sempre maggiori attenzioni nel repertorio internazionale, punto d’abbrivio della carriera del Pesarese, che con questo titolo conquista la scena scaligera il 26 settembre del 1812, dove l’opera tiene cartello per cinquantatré rappresentazioni. Certo è un Rossini ancora giovane, fin troppo memore dell’aurea lezione mozartiana, nel gioco di travestimenti e agnizioni che ironicamente ricordano l’atmosfera di Così fan tutte; ma anche della tradizione italiana di Cimarosa, rispetto alla quale segna un vigoroso, personalissimo punto di svolta. In questo difficile equilibrio sta la modernità di scrittura dell’opera: ed è stato merito di Daniele Rustioni, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, raccogliere la sfida di un cimento giovanile, in cui opportunamente valorizza gli interventi concertanti dei fiati, sulla scorta di memorie mozartiane, ma che al tempo stesso sottolinea il nuovo marchio di fabbrica dell’orchestrazione rossiniana, con ottoni, percussioni e ‘banda turca’ per assicurare la novità di brani come il Finale I (quello che Stendhal fece passare alla storia come «Sigillara», dal motto del Conte Asdrubale travestito da turco) o il Temporale, il primo nella storia della drammaturgia rossiniana. Accompagna in maniera attenta le voci, Rustioni, e per questo sortisce effetti pregevoli tanto nella sezione a cappella del Quartetto del primo atto, quanto nel Quintetto del secondo, finale intermedio che progressivamente si anima con il sopraggiungere dei vari personaggi.
Alterne, ma non per questo meno felici, le prove sul palcoscenico, con tre risultati di eccellenza, suggellati dal trionfo finale. A cominciare dall’inarrivabile Pacuvio di Paolo Bordogna, che oggi appare come il miglior buffo della sua generazione. La dimostrazione della riuscita connotazione del personaggio è forse attestata dalle risate del pubblico, franche e sincere, che accompagnano la sua celeberrima Aria, «Ombretta sdegnosa», con l’irresistibile dialogo tra una fantesca e l’ombretta: accostato alla lambada improvvisata da Donna Fulvia, è un momento di altissimo teatro comico, sostenuto dal compiuto dominio della scrittura musicale rossiniana. Fiati torrenziali supportano infatti una coloratura sempre perfettamente timbrata, eloquente per ricchezza di armonici, al servizio di un divertimento che non è mai eccessivo ma che non si limita neanche a far soltanto sorridere. Ma non gli è da meno l’altro buffo, Davide Luciano, Macrobio entusiasmante per le mitragliate di sillabati, sgranati con precisione millimetrica. Voce dal timbro pastoso, omogenea lungo tutta la gamma, asseconda la composizione di un personaggio felicemente esuberante, che brilla nella sua grande Aria, «Chi è colei che s’avvicina?», in cui dà vita e voce a un’esilarante galleria di personaggi, in cerca di una raccomandazione per figurare sul giornale da lui diretto. Su un versante opposto, si ritaglia un intervento di pregio Maxim Mironov, nei panni del Cavalier Giocondo: la sua Aria del secondo atto, «Quell’alme pupille», è un’aurea lezione di belcanto in miniatura, in cui s’impone per l’aristocratica eleganza del fraseggio, l’abile transizione dalle frasi in cui mirabilmente sostiene ampi legati alle fioriture sempre sul fiato, manovrato in maniera impeccabile per restituire i tratti di un amoroso nobile e sognatore, appassionato eppur ligio al senso del dovere, dell’amicizia e dell’onore. In un microcosmo dominato dall’opportunismo e dal trasformismo, rappresenta l’animo puro, genuino, autentico, che si traduce in una vocalità limpida, tersa, svettante.
Più controversa è la partecipazione dei due protagonisti. In un ruolo scritto per Maria Marcolini, Aya Wakizono incarna una Clarice di aggraziata, piacevole presenza, che si impone nel corso dell’opera per la musicalità e la consentaneità con la grammatica rossiniana. E tuttavia l’artista giapponese non sempre riesce a risolvere le aporie di una scrittura anfibia, poiché le manca l’adeguata proiezione del registro grave, mentre più felicemente risolve quello acuto. È interprete giovane e di grande eleganza, che dovrà stare attenta alle scelte di repertorio, evitando ruoli, come questo, attualmente troppo gravosi per la sua organizzazione vocale. Lo stesso si può dire del Conte Asdrubale di Gianluca Margheri, che pure inizialmente strappa gridolini di entusiasmo quando esibisce una fisicità atletica da autentico palestrato. Non può contare, tuttavia, su un materiale vocale di adeguata importanza (il personaggio venne misurato infatti sulle doti del mitico Filippo Galli, interprete rossiniano di riferimento) e, seppur sempre corretto, sembra rimanere in affanno rispetto alle esigenze di un ruolo che richiede ben più agguerrita padronanza della coloratura, ben più ampio, esteso afflato nell’ultima, appassionata Aria che prelude al Finale ultimo. Sugli scudi, come già nel Siège de Corinthe, l’eccellente prova del Coro del Teatro Ventidio Basso, cui la direzione di Giovanni Farina conferisce brillante partecipazione musicale, mentre tra i comprimari – al di là dell’impossibile Aspasia di Aurora Faggioli – sono da elogiare la spigliata, svettante Fulvia di Marina Monzó e l’autorevole e sonoro William Corrò, che fa del suo Fabrizio una sorta di deus ex machina del complicato intreccio narrativo.
Ma poiché di edizione critica si è parlato, a proposito di questa Pietra del paragone, e delle modifiche che la partitura ha subìto nel tempo, conviene soffermarsi sulle variazioni che hanno accompagnato la produzione di Pier Luigi Pizzi, presentata per la prima volta a Pesaro nel 2002 e poi ripresa al Teatro Real di Madrid cinque anni più tardi. Si tratta, infatti, di un piccolo, grande capolavoro, in cui il regista opportunamente dismette drappeggi e coturni per precipitare l’azione in un contesto che egli stesso ha vissuto. Per questo, identifica la casa di villeggiatura del Conte Asdrubale con la sua nobile dimora di Castel Gandolfo, in un tempo imprecisato tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Tra superbi, coloratissimi costumi fiorati o dalle fantasie optical, sedie Breuer e ombrelloni d’epoca, aperitivi e bagni in piscina, sfila un’umanità di belli e dannati alla Scott Fitzgerald, tratteggia cammei felliniani che rievocano la dorata, autunnale stagione della Dolce vita, di un tempo, quello del disincanto della giovinezza, che è stato ma che rischia di non ripetersi più. Così Pizzi impagina uno spettacolo fresco, giovane, divertente e accattivante, ma lascia trasparire l’idea che si tratti di maschere, di ruoli artatamente impersonati per sfuggire alle responsabilità della maturità. Per questo Asdrubale non sa decidersi al matrimonio («malgrado i sei lustri d’età quasi compiti»), per questo un poeta e un giornalista con due donne sciocche e vanesie diventano i burattini di un carillon che le morbide luci di Vincenzo Raponi sfumano verso un dorato meriggio dei sentimenti. Ma è appena un’ombra che sfiora una superficie mossa, colorita e vivace: salutata da dieci minuti di applausi trionfali, che si trasformano in autentica, vibrante ovazione per il regista. L’esuberante, fantasioso fortepiano di Richard Barker declina allora una scanzonata passerella finale, con i temi di ciascun personaggio, divertimento senza fine nel gioco del teatro e della vita.
38° Rossini Opera Festival
LA PIETRA DEL PARAGONE
Melodramma giocoso in due atti di Luigi Romanelli
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi,
a cura di Patricia B. Brauner e Anders Wiklund, aggiornamento 2017
La marchesa Clarice Aya Wakizono
La baronessa Aspasia Aurora Faggioli
Donna Fulvia Marina Monzó
Il conte Asdrubale Gianluca Margheri
Il cavalier Giocondo Maxim Mironov
Macrobio Davide Luciano
Pacuvio Paolo Bordogna
Fabrizio William Corrò
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del coro Giovanni Farina
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Luci Vincenzo Raponi
Pesaro, Adriatic Arena, 11 agosto 2017