Risale al fondamentale, pionieristico contributo di Abramo Basevi, lo Studio sulle opere di Verdi pubblicato nel 1859, l’inizio di un atteggiamento critico pronto a precipitare Jérusalem di Giuseppe Verdi dalla rupe Tarpea dei titoli di cui si poteva tranquillamente fare a meno: poiché assommava in sé almeno un paio di difetti, l’appartenenza alla fase giovanile degli “anni di galera” e il movente commerciale, compiacente adattamento dei Lombardi alla prima Crociata agli usi di quel teatro, l’Opéra di Parigi, che il musicista stesso non avrebbe esitato a definire come la «grande boutique». Rimasta nel repertorio delle scene liriche francofone fino al 1862, Jérusalem ha da allora beneficiato di un interesse saltuario e liminare, certo incapace di scalfire la graduatoria ideale del catalogo verdiano. Se dunque oggi il Festival Verdi di Parma ha dedicato le sue imponenti attenzioni a un titolo così desueto, pare legittimo cercarne le motivazioni, per meglio comprenderne l’esito.
Il primo passaggio – fondamentale – riguarda un’operazione di metodo: come per tutti gli altri spettacoli che fanno parte della rassegna, anche Jérusalem è stata rappresentata seguendo l’edizione critica approntata da Jürgen Selk, che ha ricostruito il dettato originario (con esiti di un qualche interesse segnatamente a carico dell’ultimo atto) e, per questa via, ha permesso di comprendere quanto Verdi stesso pubblicamente dichiarava, e cioè che I Lombardi erano stati «rifatti in modo da non riconoscersi». Se da una parte è vero, allora, che il debutto francese di Verdi si colloca nel solco di quanto, prima di lui, avevano già fatto Rossini o Donizetti, d’altro canto, proprio come era accaduto ai suoi predecessori, Jérusalem è altro perché va oltre, recupera undici numeri dal titolo precedente ma per il resto appare come una finestra schiusa per lo meno sulla contemporaneità, se non sul futuro del dramma verdiano. Più che opera del debutto, allora, Jérusalem appare opera di sintesi, lungimirante conclusione della prima stagione aurea del grand-opéra – che grosso modo coincide con gli estremi cronologici della Monarchia di Luglio – inaugurata dalla Muette de Portici di Auber, portata al suo massimo splendore dal Guillaume Tell di Rossini quindi destinata a culminare nella Juive di Halévy e nei primi tre titoli di Meyerbeer, Robert le Diable, Les Huguenots e Le Prophète. Centrale diventa allora il tema dello scontro di religione, l’affresco storico che qui evoca addirittura la partenza di un drappello di soldati francesi in Palestina onde liberare la città di Gerusalemme; ma Verdi modifica l’approccio sin dal primo brano dell’opera, che è un duetto tra due innamorati: e dunque ribalta la prospettiva, facendone un dramma di personaggi, scolpiti con il medesimo scalpello che il musicista aveva utilizzato negli altri due titoli messi in cantiere nel 1847, Macbeth e I masnadieri.
C’è un secondo aspetto che connota Jérusalem, e che di fatto mostra l’attenzione per la scena musicale parigina – al di là del divertissement coreografico del terzo atto, imposto dal canone grand-operistico. Sapientemente lo evidenzia la bacchetta di Daniele Callegari, certo esperta del repertorio italiano di primo Ottocento ma da sempre altrettanto attenta alle migrazioni culturali per i palcoscenici francesi. E come Verdi aveva messo a frutto le straordinarie risorse della compagine orchestrale dell’Opéra, così adesso Callegari dispiega le forze della Filarmonica “A. Toscanini” per valorizzare quelle pagine orchestrali, in cui si ritrova il gusto tipicamente francese per un descrittivismo di marca pittorica: a cominciare dal Lever du soleil che suggella il primo quadro, che certo era stato sperimentato nel prologo di Attila ma che qui compiutamente rimanda al prodigioso effetto immaginato nel Désert di Félicien David. Ha mano felice, Callegari, nel restituire questo repertorio di brani di carattere, marce assortite (ci sarà quella guerrière e quella funèbre) e cori, che diventano tessuto connettivo, nucleo da cui germina l’azione drammatica principale, vibrante sfondo sonoro, trapunto di vigorosi ma non fragorosi fiati e ottoni, su cui sbalzare gli interventi dei protagonisti.
Di questo beneficiano i quindici movimenti del balletto, che così ritornano a essere morceaux de bravoure, segnatamente il pimpante, irresistibile Galop e il successivo Allegro non troppo, variazioni brillanti per flauto di effetto particolarmente ricercato. Inscrivendosi a pieno titolo in una visione registica, di cui si dirà tra breve, Leda Lojodice risolve gli interventi coreografici con un pas de huit di stampo accademico, felicemente realizzato dal corpo di ballo, che punta molto sulle singolari sfumature dei costumi, nelle tinte del malva, del salmone e del bianco, e soprattutto sulle fogge di quelli maschili, accorta rivisitazione della tradizione dei dervisci rotanti. Preziosa citazione in odor di Peter Brook è l’uso di bastoncini di bambù, da tempo cari all’immaginario della coreografa, immagine di un Oriente filtrato con raffinato gusto antiquario. Ma risalta anche, soprattutto, il formidabile impatto del Coro del Teatro Regio di Parma, vigorosamente preparato da Martino Faggiani, protagonista a pieno titolo di pagine di vaga leggerezza, come l’iniziale «Enfin voici le jour propice», ma soprattutto della processione finale, che qui viene assunta con intensità profetica. Accolto da richieste di bis l’intervento del secondo atto, «O mon Dieu! Ta parole est donc vaine!» (che è riscrittura dell’originale «O Signore, dal tetto natio»), in cui viene esperito un mirabile gioco di coloriti e di sfumature.
Singolare è anche il lavoro condotto con una distribuzione vocale di pregio, che certo si ritrova a dover fare i conti non solo con le attribuzioni originarie (alla prima Gaston era Gilbert-Louis Duprez, Esther-Eliza Julian van Gelder vestiva i panni di Hélène e Adolphe-Louis-Joseph Alizard era Roger) ma soprattutto con una tradizione interpretativa, seppur limitata, che ha sempre fatto affidamento su strumenti di maggior consistenza. Callegari ricerca invece un diverso equilibrio sonoro, forse meno cospicuo ma utile per cogliere il rapporto con la prosodia francese: da qui scaturisce la scelta di un terzetto di protagonisti d’invidiabile proprietà stilistica. Così per il Gaston di Ramón Vargas, che conserva intatta l’eleganza di un timbro chiaro e luminoso, la facilità di un’emissione fluida e immacolata, il nitore del registro acuto. Interprete forbito della grande scena dell’accusa, nel terzo atto, è forse comprensibilmente più titubante nella sua aria più celebre, «Je veux encore entendre», in cui sarebbe stato proficuo sorvegliare maggiormente la linea vocale come la purezza del legato. Ma sono dettagli, nel più ampio contesto di una prova anche intimamente vissuta, segnatamente nello splendido terzetto «Dieu nous sépare, Hélène», che grazie al suo accorato, vigile impegno sembra quasi diventare pagina preparatoria del finale della Forza del destino. Così per l’Hélène di Annick Massis, che si conferma interprete di rango di quella scuola di canto francese, che ormai vanta nel mondo pochi rappresentanti. Non le si chiederà, certo, il tonnellaggio vocale di altre interpreti verdiane, e per questo forse il suo unico tallone d’Achille è un registro grave non perfettamente a fuoco: ma anche queste carenze, quando occorre (come nel caso del rondò del terzo atto), vengono piegate a fini drammatici. Poche altre artiste vantano una coloratura così adamantina, scorrevole, cristallina, che trova nella Polonaise slancio ed empito drammatico, così come si resta conquistati dagli acuti in pianissimo della grande aria «Mes plaintes sont vaines !», che culmina in una cadenza con filati da manuale. Così anche, forse soprattutto, per il mirabolante Roger di Michele Pertusi, che nonostante un timbro chiaro costruisce un personaggio semplicemente soggiogante. Se c’è una caratteristica del dettato verdiano, che rende il basso di Parma un interprete di riferimento, è la ricerca di accenti, sempre cangianti ma perfettamente calibrati, che strettamente innervano parole e musica: e come all’inizio del secondo atto trasfigura «Ô jour fatal! ô crime» con un attacco in pianissimo da brivido, così trasforma in vaticinio profetico la sua visione della Città santa, al principio dell’ultimo atto. Anche sotto il profilo scenico, trasforma un vendicatore ferino in un eremita pentito, una sorta di Amfortas in cerca di riscatto da un colpevole amore, fino alla redenzione del popolo intero. Fa da corona a questo terzetto una distribuzione omogenea ed efficace. Di grana pastosa è il Comte de Toulouse di Pablo Gálvez, autorevole l’Émir di Massimiliano Catellani, mentre non sempre si fa apprezzare la rugosità del Legato Adhémar de Monteil di Deyan Vatchkov. Con Matteo Roma (Officier), negli interventi più brevi si segnalano anche Valentina Boi, Isaure di nobile manto vocale, e uno squillante Francesco Salvadori, impegnato in più ruoli.
Riprendere Jérusalem, tuttavia, significa misurarsi anche – forse soprattutto – con una dimensione spettacolare, che è fondamentale nel caso del grand-opéra. Hugo de Ana firma uno spettacolo sontuosamente tradizionale, estremamente ‘pieno’ eppur costruito su una scena quasi interamente vuota, una cava di pietra che abilmente sfrutta tutta la profondità del palcoscenico del Regio. Certo lo spettacolo rischia di essere talora debordante di citazioni, soprattutto a causa delle doppie proiezioni animate in 3D – sul fondo della scena come sul velario di tulle al proscenio – curate da Sergio Metalli per Ideogramma: praticamente un tripudio di immagini, dalla bolla di Urbano II a capitelli romanici e vetrate gotiche in moto perpetuo, con sfilate di crociati che coraggiosamente s’apprestano alla battaglia e catastrofi meteorologiche che s’abbattono sul deserto. Ma è forse un modo – uno tra gli altri, s’intende, adattato alle possibilità tecnologiche dei giorni nostri – di rispettare la magniloquenza che il grand-opéra pretende, e forse impone. Certo il meglio viene dalla raffinatissima mano di Hugo de Ana: nello splendore dei costumi, che valorizzano la morbida silhouette rinascimentale della Massis come la nobile asprezza di tratti di Pertusi; come nei riferimenti pittorici, che incrociano gli infuocati panorami africani di Delacroix all’immancabile teschio di Roger – che non cita quello di Amleto, come molti hanno pensato, ma l’iconografia caravaggesca di San Gerolamo, anacoreta in Terra Santa. E tutto questo per comporre sfarzosi tableaux vivants, mobili, vibranti immagini dominate dal segno della Croce di Gerusalemme: «Cité du Seigneur! Saint Sépulcre! Calvaire!», ma da ora anche approdo di belcanto in terre verdiane.
Teatro Regio – Festival Verdi 2017
JÉRUSALEM
Grand opéra in quattro atti di Alphonse Royer e Roger Vaëz
Musica di Giuseppe Verdi
Edizione critica a cura di Jürgen Selk
The University of Chicago Press, Chicago, e Casa Ricordi, Milano
Gaston Ramón Vargas
Le Comte de Toulouse Pablo Gálvez
Roger Michele Pertusi
Hélène Annick Massis
Isaure Valentina Boi
Adhémar de Monteil Deyan Vatchkov
Raymond Paolo Antognetti
L’Émir de Ramla Massimiliano Catellani
Un Officier de l’Émir Matteo Roma
Un Hérault, un Soldat Francesco Salvadori
Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini”
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Daniele Callegari
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia, scene, costui Hugo de Ana
Luci Valerio Alfieri
Project Designer Ideogramma s.r.l. – Sergio Metalli
Coreografie Leda Lojodice
Nuovo allestimento in coproduzione l’Opéra de Monte-Carlo
Parma, 28 settembre 2017