«Quiconque ne l’a vue dans ce rôle, ne peut pas dire qu’il la connaît; elle s’y montre aussi grande tragédienne que parfaite cantatrice. Chant, passion, beauté, elle a tout; rage contenue, violence sublime, la menace et les pleurs, l’amour et la colère: jamais femme n’a ainsi répandu son âme dans la création d’un rôle.»
Théophile Gautier, Les beautés de l’Opéra ou Chefs-d’œuvre illustrés par les premiers artistes de Paris et de Londres, 1845.
Di un’altra Norma, al Teatro Massimo di Palermo, non è che si sentisse realmente il bisogno. Dopo quarant’anni di assenza, infatti, il capolavoro di Vincenzo Bellini era stato allestito nel 2007, con Bruno Campanella a dirigere un cast guidato da Dimitra Theodossiou; e nell’estate del 2014 era ritornato in un pregevole esempio di Regietheater, una produzione dell’Opera di Stoccarda, firmata da Jossi Wieler e Sergio Morabito, premiata da “Opernwelt” come miglior spettacolo dell’anno nel 2002. Le ragioni dell’ultima, nuova produzione dell’opera risiedevano, dunque, altrove: e non era difficile identificarle nella calamitante presenza di Mariella Devia, che della sacerdotessa druidica ha fatto il suo ultimo, blasonato cavallo di battaglia. Non ci si meravigli di una scelta simile: non soltanto perché coronata da un “tutto esaurito” che certificava la partecipazione entusiasta e plaudente di un pubblico numeroso come rare volte capita di vedere, addirittura in piedi nelle zone più impraticabili del loggione; ma anche perché risponde a una pratica, che ai primi dell’Ottocento andava sotto il nome di beneficiata, di una serata, cioè, a beneficio della stella di turno. E qui la stella era, indubbiamente, di prima grandezza. Ma un pregio ha avuto, lo spettacolo palermitano, e non dei minori: perché intorno alla protagonista, per la quale è stata immaginata la produzione, tutto l’insieme è risultato calibrato ed equilibrato, concepito in maniera tale da valorizzare l’autorevole presenza dell’artista ligure, ma anche da non emarginarla in una condizione di splendido isolamento.
Si prenda il caso della nuova produzione, coprodotta con Macerata Opera Festival, dove è andata in scena l’estate scorsa, e firmata da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi di TeatriAlchemici, premiato sodalizio palermitano impegnato nel sociale grazie alla contaminazione di linguaggi teatrali. Al debutto nella lirica, i due registi siciliani hanno costruito l’intero spettacolo sulla presenza di lunghe funi, interminabili corde, fili della vita che s’intrecciano e si srotolano nelle mani dei personaggi come sullo sfondo dell’elaborato impianto scenico di Federica Parolini, in maniera da comporre un’inestricabile foresta – ma anche un mondo in sé conchiuso e impenetrabile, nel quale si schiudono un varco unicamente i due soldati romani. Con l’impronta riccamente materica dei costumi di Daniela Cernigliaro, delineano un mondo ancestrale, fin quasi tribale, in cui è Norma a reggere le fila, a intrecciare la storia collettiva e i destini privati, mentre intesse un dialogo con gli astri, la luna che svela il suo volto quando invocata nel corso di antichi rituali, il sole che, nel volto di Pollione, brilla agli occhi di Adalgisa. Con il procedere dell’azione, tuttavia, diventa tangibile l’impressione che questi frondosi alberi di corde, queste effimeri, nodosi intrecci diventino metafora non solo della drammaturgia dell’opera, uno gliuommèro che si districa e infine si scioglie con il sacrificio della sacerdotessa; ma anche di un teatro di cui viene messo a nudo l’aspetto più artigianale, quelle machinæ sceniche – qui, invero, assenti. Ed è forse questo il maggior limite di questa impostazione registica: perché se l’idea di base può risultare suggestiva, a lungo andare risulta ripetitiva, e soprattutto prescinde da una direzione ora lasciata alla libera iniziativa degli interpreti, ora scopertamente banale – nel caso degli atteggiamenti belluini dell’atletico Pollione.
Protagonista di un autentico tour de force, nel corso degli ultimi mesi, Gabriele Ferro è tornato sul podio di un’orchestra che – forse per risultare maggiormente aderente alle condizioni acustiche originarie – era stata collocata all’altezza della platea, dunque a un livello più elevato rispetto al piano del golfo mistico. È difficile dire se e fino a che punto questa soluzione ha modificato gli equilibri fonici tra buca e palcoscenico: perché l’unica preoccupazione del direttore palermitano è parsa la ricerca di un suono levigato, ben tornito – ma sovente privo di nerbo. Da sempre assai interessante nelle sue interpretazioni del repertorio novecentesco, Ferro opta per tempi che privilegiano il cantabile belliniano, dilatandolo oltre misura: una scelta qui egregiamente sostenuta dagli artisti impegnati sulla scena, ma che certo allenta la tensione drammatica. Attese le scelte interpretative della protagonista, tuttavia, questa visione contribuisce a potenziare la dimensione squisitamente lirica del dramma, che emerge con particolare evidenza nel corso dei due duetti per le voci femminili. Merita elogi, infine, l’esecuzione quasi integrale della partitura (ad eccezione di un breve taglio nella Stretta del Finale I), nella versione per due soprani, prevista dal compositore.
Sulla scena una distribuzione di alto profilo: a cominciare dal coro, accuratamente preparato da Piero Monti, che brilla per omogeneità, compattezza, morbidezza della pasta sonora. E di non minore pregio sono due comprimari di lusso, l’attenta Clotilde di Maria Mirò e, soprattutto, lo svettante Flavio di Manuel Pierattelli, ormai maturo per prove più impegnative. Si fa apprezzare l’Oroveso di Luca Tittoto: grazie al timbro brunito e pastoso, eccelle nella bella Sortita del secondo atto, cui conferisce nobile autorevolezza e guida sicura. Ed è un privilegio, ancora, ascoltare dal vivo il Pollione di John Osborn. Il tenore statunitense era stato protagonista, nel 2013, della curiosa operazione discografica che vedeva come vedette incontrastata Cecilia Bartoli: a fronte della quale emergeva per la sicurezza con cui s’inerpicava nel registro sovracuto, impegnato nella Cavatina di sortita in variazioni di bravura di stampo post-rossiniano. Al contraltino di un decennio fa è subentrata, adesso, una maturazione della voce che si è fatta più scura, pur mantenendo la medesima facilità nelle agilità di forza, convalidate nel corso degli ultimi anni da una serie di impressionanti interpretazioni rossiniane, che ne hanno fatto un Otello di riferimento. Musicista di rango, Osborn tratteggia un proconsole romano in crescendo, emozionante nel Finale I, ma addirittura trascinante nell’ultima sezione dell’opera: fino a un Finale in cui emerge la forza di un canto poderoso, luminoso, alato, perfettamente sostenuto sul fiato.
La migliore sorpresa della serata è stata, però, l’Adalgisa di Carmela Remigio. In eccellente forma vocale, lontana da sperimentazioni che non le appartenevano, possiede infatti la caratura perfetta per il ruolo della giovane novizia, atteso quanto il colore giovanile e l’emissione morbida e levigata ben si integrino con la più matura sacerdotessa, costituendone il supporto, il sostegno, il compimento. Risultano pregevoli i duetti, oasi di rarefatto, incontaminato lirismo: segnatamente il primo, in cui la storia dell’una si rispecchia e si stempera nella malinconica passione dell’altra, in un gioco di echi, rifrazioni, rimandi a dir poco commovente. Di fronte a una prova simile ben si comprende quanto, in altri casi, la sciagurata scelta di un mezzosoprano renda matronale e poco credibile il ruolo di Adalgisa: che invece deve risultare candidamente liliale e al contempo fervidamente appassionato.
Sono trascorsi esattamente venticinque anni da quando – era il febbraio del 1992 – Mariella Devia faceva il suo debutto belliniano a Palermo nel ruolo di Amina: sin da allora risolvendolo in una dimensione d’incorrotto, neoclassico nitore, di purissimo e incontaminato belcanto, particolarmente consono alla cifra sfumata e sognante della giovane contadina sonnambula. Altri ruoli – tra cui una memorabile Giulietta dei Capuleti e Montecchi – e molto tempo è trascorso da allora: ma non meno stupefacente è la lezione di canto che l’artista assicura, tanto la sua Norma risulta perfettamente messa a fuoco, tanto sotto il profilo vocale quanto – lo si dica una volta per tutte – scenico. Non si può non rimanere colpiti, infatti, dalla impressionante padronanza del ruolo: e se le sfugge la fine della cabaletta (ma è errore veniale, in parte causato da un’imprecisione orchestrale), semplicemente perfetta è la sua «Casta diva», lunghissima, inebriante arcata melodica sostenuta da un legato fluviale – e perciò ricompensata da un interminabile applauso – come tutto il Finale ultimo, in cui la limpida definizione del fraseggio tratteggia le più riposte emozioni di una madre pronta a immolarsi. La perfezione della coloratura, peraltro, viene piegata a fini espressivi nei duetti con Adalgisa: sì da suggerire come la sacerdotessa abiti ormai una dimensione di leopardiano rimpianto, che poggia, galleggia unicamente sul suono, alimentando la bellezza di melodie «lunghe, lunghe, lunghe» quanto il filo di un ricordo sempre vivo e inestinguibile. Per questo la sua Norma non ferisce né ruggisce, non sfodera gli artigli né aggredisce, ma s’impone per rigore, contegno, pudore rattenuto eppur risoluto. Così Norma diventa quel «carattere enciclopedico», come suggeriva Bellini, del quale è ancora e sempre possibile lumeggiare sfaccettature inedite. Così Norma vive di canto, passione e bellezza, come annotava ieri Théophile Gautier, rapito da un’interpretazione sui generis come quella di Giulia Grisi; come è possibile ripetere oggi, di fronte al miracolo di questa Norma: stregati dalla luna, o forse dalla sua voce.
Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2017
NORMA
Tragedia lirica in due atti di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
Pollione John Osborn
Oroveso Luca Tittoto
Norma Mariella Devia
Adalgisa Carmela Remigio
Clotilde Maria Mirò
Flavio Manuel Pierattelli
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del coro Piero Monti
Regia Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi
Scene Federica Parolini
Costumi Daniela Cernigliaro
Luci Luigi Biondi
Palermo, 26 febbraio 2017