Adriana Lecouvreur, o del divismo nascente. È il 6 novembre del 1902 quando il capolavoro di Francesco Cilea debutta al Teatro Lirico di Milano; e meno di due anni più tardi fa il suo trionfale ingresso al Teatro Massimo di Palermo, il 19 aprile del 1904, alla presenza dell’autore, nel corso di una serata che progressivamente conquista l’uditorio, pronto a concedere «applausi [che] sgorgarono spontanei e calorosi.» Il nome del musicista calabrese è strettamente legato a quello del capoluogo siciliano: nell’età dei Florio, mentre l’Art nouveau dei Basile e di Ettore Maria De Bergler decora viali e villini della città, Cilea assume la direzione del Conservatorio, nel triennio 1913-1916, prima del definitivo trasferimento a Napoli. E di quella stagione Palermo non sembra essersi più dimenticata, riservando ad Adriana Lecouvreur ininterrotte attenzioni, presenza costante nei cartelloni del Massimo teatro cittadino con presenze di assoluto rilievo, che ne hanno segnato la storia: dalla prima interprete, la celeberrima mascagnana Gemma Bellincioni, a Giuseppina Cobelli, nel 1936 quindi cinque anni più tardi; da Pia Tassinari, con il consorte Ferruccio Tagliavini, nel 1945, in una sorta di mini-festival personale che include anche Faust e Werther, a Mafalda Favero, nel 1950, poco prima dell’addio alle scene; dalla celebrata Magda Olivero, interprete di riferimento del ruolo, nel 1959, ad Antonietta Stella, beniamina del pubblico siciliano, nel 1966; da Giovanna Casolla, nel 1988, a Raina Kabaivanska, nel 1996, che proprio in quel torno d’anni consegna al pubblico siciliano le sue magistrali interpretazioni; fino alla compianta Daniela Dessì, in occasione dell’ultima ripresa del 2009.
Quanto sopra basterà a illustrare il clima di febbrile, spasmodica attesa che ha circondato il debutto palermitano di Angela Gheorghiu, in un ruolo che ha già consegnato al video in una recente, acclamata produzione londinese cucita su misura per il suo talento. Subito va detto che, pur attestandosi sugli attesi, altissimi livelli, la sua Adriana – almeno per chi abbia cognizione della tradizione interpretativa del ruolo – non solo progressivamente guadagna terreno nel corso della serata; ma è stata per lo meno eguagliata da altre, non meno blasonate presenze, che hanno contribuito al trionfale successo dello spettacolo. Inutile negare, infatti, che l’assoluta padronanza del ruolo, maturata nel corso di numerose recite, non le permette di rendere giustizia alla stupefacente sortita prevista per il personaggio: assente nel registro medio-grave, è come se stentasse a carburare, a dare una sostanza – non soltanto scenica – al ruolo della celeberrima sociétaire della Comédie-Française, quasi che le prove dell’imminente Bajazet di Racine coincidessero con quelle dello spettacolo ormai in corso. È nell’atto della Grange-Batelière, tuttavia, che l’artista pare quasi costretta a sfoderare gli artigli, nell’inevitabile confronto-scontro con l’impressionante Principessa di Bouillon di Marianne Cornetti: dove ritrova slancio ed energia, quel fuoco interno che deve animare il personaggio e che, finalmente, prende vita nel fitto intreccio di intrighi pubblici e rivalità private.
Ma poi ci sono gli ultimi due atti. E qui arriva, finalmente, la zampata della grande, grandissima artista. Già lo scambio di battute sul bracciale della Principessa, mostrato per pubblico disdoro della rivale, avvia la ricerca di un fraseggio incandescente, attento a sottolineare il valore ulcerante della parola. Il monologo di Fedra è, di fatto, il primo capolavoro della serata: perché di rado è dato sentire così attentamente dosato ed equilibrato il crescendo dal declamato al canto, fino a un «Chiedo in bontà di ritirarmi…» che ha tutto il sapore della vendetta e, al tempo stesso, della catastrofe ormai imminente. Semplicemente prodigioso è, di seguito, l’ultimo atto: perché l’artista rumena mette finalmente a frutto la doviziosa eleganza, il luminoso splendore di un timbro di straordinaria, sorgiva bellezza, peraltro ormai maturo per dare adeguata consistenza drammatica al travaglio della donna e dell’artista. Ne sortisce un ritratto morbidamente acquarellato, in cui emergono sensualità e vulnerabilità, perfetta caratura della frase, ma soprattutto quella commistione tra arte e vita che è all’origine dell’irresistibile fascino del personaggio: non è un’Adriana «umile ancella del genio creator», insomma, ma una tragédienne di slancio rapinoso, e il diafano explicit, «Ecco la luce», è semplicemente mozzafiato.
Le fa da corona una distribuzione di alto rango, con almeno due punte di diamante. Si è già accennato a Marianne Cornetti, che è una Principessa di Bouillon ribollente di gelosia e di passione: un’autentica, tellurica forza della natura, forte di uno strumento massiccio e imponente, contralto dalle ampie risonanze cavernose, capace di squadernare le profondità degli abissi – e non necessariamente quelle degli astri celesti – nella sua travolgente invocazione alla «vagabonda stella d’Oriente». Ma merita un plauso l’eccellente Michonnet di Nicola Alaimo, che mette a profitto un’invidiabile maturità interpretativa per consegnare un cammeo semplicemente perfetto: in cui anche il physique du rôle sembra coincidere con le frustrazioni dell’umile direttore di scena, traboccante di umanità, semplicità, candore. La calibrata partecipazione scenica si fonde, peraltro, a una generosità vocale, a una sontuosa grana che trova nel canto di conversazione l’ultimo traguardo vittoriosamente conquistato: per questo è amico e amante, fratello e padre, presenza autorevole e rassicurante, che meritatamente conquista un successo personale al termine della recita.
Meno convince il pur possente Maurizio di Sassonia di Martin Muehle, un tripudio di decibel che fa affidamento sulla stentorea potenza, sullo squillo adamantino e sulla robusta proiezione della voce: certo tantissimo, e tale da fargli scandire «Il russo Mèncikoff» come se realmente ci trovassimo tra le granate dei cannoni e le mille esplosioni di una battaglia vittoriosa. È pericoloso, tuttavia, inscrivere il personaggio (di suo già monocorde) unicamente in questa dimensione: e, sin da «La dolcissima effigie», si attende invano un gioco di sfumature, che in atto gli è estraneo. Altrettanto poco calzante è la coppia composta dal Principe di Bouillon di Carlo Striuli, pericolosamente segnato dall’usura del tempo, e dall’Abate di Chazeuil dell’incolore Luca Casalin, del tutto privo di smalto; mentre si disimpegna con efficacia il quartetto dei comédiens, composto dalle funzionali voci maschili di Angelo Nardinocchi (Quinault) e di Francesco Pittari (Poisson) e da quelle femminili di Inés Ballesteros (M.lle Jouvenot) e Carlotta Vichi (M.lle Dangeville). Da menzionare, infine, un’assoluta novità nel corso del terzo atto: il divertissement coreografico tale rimane, nelle mani di Giuseppe Bonanno, che opportunamente si limita a disporre un disegno settecentesco, una citazione d’autore affidata all’eleganza di Fabio Correnti, Elisa Arnone e Francesca Davoli; e il coro quasi lo ammanta con la leggerezza di una nuvola di cipria, sensibile alle indicazioni dinamiche della direzione di Piero Monti.
Qui conviene dire della concertazione di Daniel Oren, alla guida di un’orchestra semplicemente in stato di grazia. È nota la consentaneità del direttore israeliano con il repertorio italiano, e con quello fin de siècle in particolare; ma è interessante sottolineare come questa idea sia maturata e si sia affinata nel corso degli anni. Così, in Adriana Lecouvreur adesso non cerca più una teatralità impetuosa e irruente, né lo soddisfa il mero gioco di teatro nel teatro, che inevitabilmente richiede una moltiplicazione dei piani sonori come delle sfumature agogiche. Sullo sfondo, ben salda, si percepisce un’ammirazione viscerale per un’orchestrazione di altissimo artigianato, cui presiede la compiuta assimilazione della lezione wagneriana dei motivi conduttori: e quando ne ha il destro, nelle due ampie pagine unicamente orchestrali del dramma (a metà del secondo e al principio del quarto atto), ne distilla gli empiti melodici con un’intensità struggente, ma anche con la ricerca di un suono che assottiglia, rende trasparente, traduce il dramma, lo sublima. E invece di mettere in moto una macchina da guerra che asfalta il canto e ne esalta i turgori, gioca per sottrazione, rallenta, punta tutto su un senso del rubato che porta alle estreme conseguenze. Ne scaturiscono aeree volute di un suono liberty, fragranti di quel mortifero profumo di violette che dalla fossa si spande sul palcoscenico e poi nella sala: che inebria, esalta, uccide.
In questa ricerca felicemente lo asseconda lo spettacolo, tradizionale ma efficace, firmato in unità d’intenti da Ivan Stefanutti. Il regista decide infatti di prescindere dalla rievocazione settecentesca per lavorare sul periodo storico in cui l’opera vede la luce e riflettere sul fenomeno del divismo, che proprio in quel torno d’anni travalica dalla scena teatrale a quella del cinema muto. Adriana Lecouvreur diventa così sorella maggiore di Sarah Bernhardt e di Eleonora Duse, protagonista di una sontuosa pellicola in bianco e nero in cui la strepitosa eleganza dei costumi valorizza gesti, posture, atteggiamenti di sicuro impatto sul pubblico. Angela Gheorghiu perfettamente si cala in questa impostazione, non soltanto sfoggiando quattro mises in stile, con aigrette, piume e strascico, che ne esaltano la figura; ma soprattutto assumendone i tratti, attraverso una accurata identificazione alle dive di primo Novecento. Ed è suggestivo il finale: con il delirio di Adriana, che quasi confonde la sua morte reale con quella fin troppe volte rappresentata sulle scene; mentre una gigantografia di Lyda Borelli, che maestosa campeggia sullo sfondo del boudoir dell’artista, si accende di tenui colori pastello. E da spento dagherrotipo si fa ritratto vivo e vitale, pulsante di emozione e di verità.
Teatro Massimo – Stagione di opere e balletti 2017
ADRIANA LECOUVREUR
Opera in quattro atti di Arturo Colautti
Musica di Francesco Cilea
Maurizio di Sassonia Martin Muehle
Il principe di Bouillon Carlo Striuli
L’abate di Chazeuil Luca Casalin
Michonnet Simone Alaimo
Quinault Angelo Nardinocchi
Poisson Francesco Pittari
Adriana Lecouvreur Angela Gheorghiu
La principessa di Bouillon Marianne Cornetti
M.lle Jouvenot Inés Ballesteros
M.lle Dangeville Carlotta Vichi
Maggiordomo Carlo Morgante
Un fauno Fabio Correnti
Due ninfe Elisa Arnone, Francesca Davoli
Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Daniel Oren
Maestro del coro Piero Monti
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Luci Claudio Schmid
Coreografie Giuseppe Bonanno
Allestimento del Teatro Sociale di Como – As.Li.Co.
Palermo, 17 ottobre 2017