Per una “versione milanese” felicemente recuperata e riabilitata (la Butterfly inaugurale), ce n’è un’altra che viene, a giusto titolo, pian piano dimenticata. In questa occasione – e come poche altre volte nel secolo scorso grazie alla bacchetta illuminata di Maestri quali Toscanini, Santini e Abbado – viene difatti ripristinata e messa in scena la versione in cinque atti di Don Carlo (Modena 1886) al posto di quella composta da Giuseppe Verdi nel 1884 appositamente per il Teatro alla Scala e spesso riproposta al Piermarini nelle stagioni passate.
Myung-Whun Chung, alle prese con la versione estesa del titolo, ottiene dall’Orchestra del Teatro alla Scala un suono che si plasma sempre al momento scenico: non solo bellurie strumentali, ma una narrazione viva e mutevole, costantemente ragionata. Il direttore coreano tira le redini laddove un maggiore sostegno alle voci lo richieda ed allenta le briglie nelle pagine di sinfonismo più disteso, come nell’introduzione alla grande aria di Elisabetta. La lunga scena che conduce all’autodafé, ad esempio, evidenzia una successione dinamica caratterizzata da un rapido incalzare, in concomitanza agli eventi, che si interrompe nella stupenda oasi lirico-melodica dell’implorazione dei deputati fiamminghi a Filippo. Inoltre, nell’incontro-scontro tra il sovrano e l’inquisitore, Chung rende con piena efficacia teatrale una delle pagine di musica più geniali mai concepite da Verdi.
Il cast radunato per l’occasione, salvo un paio di eccezioni, è complessivamente non all’altezza delle richieste.
Krassimira Stoyanova è un’Elisabetta di carta velina. La voce, per quanto ben emessa ad ogni altezza, è irrimediabilmente piccola, e il timbro suona davvero troppo fragile per una donna che, nonostante sia vittima degli eventi che la coinvolgono, resta pur sempre una regina. Il soprano bulgaro soccombe non solo alla densità dello strumentale, ma pure al canto dei colleghi, a partire dai semplici duetti fino agli assiemi più elaborati. Delle due arie, “Non pianger mia compagna” è quella che meglio si sposa alle caratteristiche vocali ed espressive dell’artista, mentre “Tu che le vanità” rivela un’importante mancanza di peso specifico, già evidente dal debolissimo fa diesis d’attacco. Sarebbe però profondamente ingiusto non riconoscere alla Stoyanova quantomeno l’eccellente musicalità e il finissimo legato (non a caso la cantante è violinista diplomata) che ne caratterizzano l’intera prova.
Francesco Meli dimostra, con il suo Carlo, la baldanza dell’ardore giovanile. La voce, di timbro limpido e schietto, si espande al meglio nella parte centrale dell’estensione (e perciò adattissima alla tessitura di Carlo), coadiuvata da una pronuncia adamantina e da un fraseggio nobile, quindi autenticamente verdiano. Se è vero che il registro acuto non scintilla ed evidenzia un’emissione appena più laboriosa, devo però constatare come esso risulta meglio saldato al medium della voce se confrontato con i risultati di prove precedenti.
Simone Piazzola è un Rodrigo vocalmente sottodimensionato. Il canto di questo Marchese di Posa, sebbene corretto, manca di autorevolezza: lo strumento suona flebile lungo tutta l’estensione, fino ad acuti che possiedono sì maggior volume ma che assumono sovente un colore così chiaro da sembrare quasi tenorile. All’attivo della performance, per audacia e convincimento, sta il duetto con Ferruccio Furlanetto, galvanizzante Filippo II per antonomasia. Meno bene l’aria del quarto atto, dove l’incipit dell’andante sostenuto di “Per me giunto è il dì supremo” risulta ritmicamente pasticciato. Un’esecuzione sotto tono (è lecito supporre qualche malanno di stagione o un momentaneo calo nella forma?) e un’interpretazione, considerata la giovane età del cantante veronese, solo “embrionale” di un grande ruolo per baritono verdiano.
Béatrice Uria Monzon, chiamata a sostituire l’indisposta Semenchuk, salva la recita, ma, pur concedendole l’onore delle armi, non posso tacere degli esiti catastrofici cui approda questa Eboli. Non è questione di impreparazione o mancanza di prove, bensì di una vocalità di soprano corto priva di qualunque attrattiva, ruvida e grigiastra nel timbro, platealmente gutturale nell’emissione, lanciata a “o la va o la spacca” nel settore acuto. Bella donna, la Uria Monzon, e attrice disinvolta…ma la Principessa Eboli è un’altra cosa.
Ferruccio Furlanetto vanta una frequentazione ultra trentennale di Filippo II, e un’esperienza di questo calibro non manca di farsi prepotentemente sentire. Il suo Re di Spagna riesce ad annichilire qualsiasi sforzo, vocale o interpretativo che sia da parte del resto del cast, con solo due o tre frasi ben calibrate. La voce è il portento di sempre, sonora e scurissima. La somma conoscenza di tutti i risvolti psicologici insiti nella parte, porta il grande basso a comporre per l’ennesima volta un ritratto altamente credibile del sovrano dilaniato dalla dicotomia tra ruolo pubblico e dimensione privata. La grande scena in solitaria al quarto atto, nel delineare con l’uso sottile dei colori e delle dinamiche la prostrazione dell’uomo innamorato e non riamato a sua volta, risulta assolutamente paradigmatica.
Eric Halfvarson, subentrato a Orlin Anastassov come Grande Inquisitore per le prime tre recite, si segnala più per meriti attoriali. Si badi, la voce c’è, per quanto leggermente sconquassata nell’emissione, ma più impressionante è la resa scenica di un personaggio che il libretto descrive come “cieco nonagenario”. Il basso statunitense, infatti, calamita l’attenzione grazie all’abilità con la quale si contorce, quasi in preda a convulsioni, durante lo scambio di battute con il sovrano.
Vocalmente esangue il Tebaldo filiforme di Theresa Zisser. Gradevolmente funzionale il basso Martin Summer quale frate, nonché spettro di Carlo V.
Tra le parti di fianco, Azer Zada si ritaglia un posto di rilevo nei doppi panni del Conte di Lerma e di un araldo reale con la sua squillante voce di tenore.
Il Coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni dà prova della consueta professionalità, senza tuttavia assurgere a risultati impeccabili.
Poco si può dire dell’allestimento originariamente concepito nel 2013 da Peter Stein per il Salzburger Festspiele, se non che lo spettacolo, con scenografie di rara bruttezza, disattende totalmente lo spirito di grand opéra che sta alla base del titolo. Al monocromatico squallore delle scene realizzate da Ferdinand Wögerbauer, rimedia in parte il light design di Joachim Barth, che ha il merito di salvare perlomeno l’ultima scena, immergendo il Chiostro di San Giusto in un’intensa luce blu dalla quale emerge, come punto focale, la statua dorata che rappresenta l’imperatore Carlo V. Altrove le soluzioni visive risultano al limite dell’imbarazzante (la festa della Regina nei giardini di Madrid). Più piacevoli e pertinenti i costumi firmati da Anna Maria Heinreich.
Teatro alla Scala – Stagione d’Opera e Balletto 2016/2017
DON CARLO
Dramma lirico in cinque atti
Libretto di François-Joseph Méry e Camille Du Locle
Traduzione italiana di Achille De Lauzières
e Angelo Zanardini
(Edizione integrale della versione in 5 atti,
a cura di U. Günther e L. Petazzoni;
Editore Casa Ricordi, Milano)
Musica di Giuseppe Verdi
Elisabetta di Valois Krassimira Stoyanova
La principessa Eboli Béatrice Uria-Monzon
Don Carlo Francesco Meli
Rodrigo Simone Piazzola
Filippo II Ferruccio Furlanetto
Il Grande Inquisitore Eric Halfvarson
Un frate Martin Summer*
Voce dal cielo Céline Mellon*
Sei deputati fiamminghi Gustavo Castillo*, Rocco Cavalluzzi*, Dongho Kim*, Victor Sporyshev*, Chen Lingjie**, Paolo Ingrasciotta*
Conte di Lerma/Un araldo reale Azer Zada*
Tebaldo Theresa Zisser
*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala
**Allievo del Conservatorio “Giuseppe Verdi”
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Myung-Whun Chung
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Peter Stein
Scene Ferdinand Wögerbauer
Costumi Anna Maria Heinreich
Luci Joachim Barth
Produzione Salzburger Festspiele
Milano, 22 gennaio 2017