Una volta, prima di andare all’opera, si leggeva il libretto. Lo si leggeva tutto, per andare a teatro preparati, per comprendere bene quello che accadeva sul palcoscenico e per capire il testo cantato. Si leggevano le didascalie per conoscere l’ambientazione, per sapere come il librettista e il compositore avevano concepito la scena e avevano deciso di raccontare la vicenda. Oggi non serve più: la tecnologia ci risparmia questa fatica. Possiamo entrare a teatro inconsapevoli e innocenti, perché i soprattitoli si snoderanno in perfetta sincronia con musica e canto e ci aiuteranno a seguire la vicenda e a comprenderla meglio.
L’innocenza aiuta molto con l’allestimento di questo Falstaff genovese (nato in origine per il Teatro San Carlo di Napoli, il Petruzzelli di Bari e il Maggio Musicale Fiorentino) con la regia di Luca Ronconi ripresa da Marina Bianchi, le scene di Tiziano Santi e i costumi di Tiziano Musetti. Inutile aspettarsi l’ambientazione prevista dalle didascalie del libretto di Arrigo Boito. Siamo, invece, in una dimensione atemporale che richiama in parte la belle époque (soprattutto nei costumi dei personaggi femminili), in parte la rivoluzione industriale (con l’introduzione in scena di macchinari dall’aspetto decisamente arcaico). Le scene sono scarne, dominate prevalentemente da tre grandi fondali bianchi. Anche il gioco di luci è sostanzialmente limitato al secondo quadro del terzo atto. Alcune idee sono apprezzabili, ma non trovano un naturale sviluppo, forse per l’estrema sintesi dell’ultimo capolavoro verdiano, dal ritmo incalzante e implacabile che non consente troppi indugi e compiacimenti nella realizzazione scenica. Così, l’idea di collocare l’Oste della Giarrettiera in posizione dominante in alto al centro della scena, quasi fosse una sorta di deus ex machina, rimane fine a se stessa, non trova appunto sviluppo. Analoga considerazione per l’idea di mettere il Dr. Cajus durante il primo atto dentro a una botte sospesa in alto su una specie di gru, come se pontificasse da un pulpito: è solo una trovata, divertente fin che si vuole, ma che nulla aggiunge al personaggio e alla riuscita scenica. Altrettanto interessante è l’intenzione di evidenziare la dimensione immaginativa e onirica del protagonista: nel primo atto, ad esempio, quando sir John narra ai servi il suo incontro con la bella Alice, ecco che la scena viene attraversata da una vasca da bagno (autocitazione ronconiana?) dove l’allegra comare mostra movenze ammiccanti verso l’anziano cavaliere: l’apparizione di Alice è, o meglio vorrebbe essere, una proiezione dell’immaginazione di sir John. La scena del terzo atto, poi, è dominata in entrambi i quadri dal grande letto di Falstaff collocato al centro del palcoscenico. Nel momento in cui Mrs Quickly narra la storia del Cacciatore Nero e della Quercia di Herne, Falstaff, invece di rientrare nell’osteria insieme alla comare, si corica a letto e si addormenta. L’intenzione sarebbe quella di condurre il finale dell’opera nella dimensione del sogno: la burla, la quercia (che con bellissimo effetto visivo appare in scena capovolta e incombente sul cavaliere dormiente), le fate, gli spiritelli e i farfarelli del palude infernale dovrebbero essere irreali ed esistere solo nel sogno/incubo di Falstaff. Ma il condizionale è d’obbligo perché la vicenda non si sviluppa nella dimensione onirica: il finale – la celeberrima fuga “Tutto nel mondo è burla” – fatto eseguire dai solisti seduti alla ribalta con gambe a penzoloni nella buca orchestrale, non riesce a portare a compimento l’idea e rimane forte la sensazione di incompiutezza dell’insieme. Chissà, forse leggere il libretto, didascalie comprese, servirebbe ancora.
Andrea Battistoni dirige Falstaff con il giusto ritmo, senza indugi e compiacimenti. Un po’ di colore in più non avrebbe guastato. Si è percepito qualche momento di scollamento, in particolare nel sovrapporsi del cicaleccio delle comari a quello dei fanti malaugurati. Nell’insieme quella di Battistoni è stata comunque una buona prova.
Dominatore assoluto dello spettacolo è stato Carlos Álvarez nel ruolo del protagonista: voce timbrata, ben proiettata e sonora, con dizione perfetta anche nei passaggi più veloci. Da vero professionista, Álvarez non fa di testa sua e segue le indicazioni registiche, per cui il suo Falstaff non è mai macchiettistico o sopra le righe, ma neppure troppo divertente. È una scelta registica, appunto. Alessandro Luongo ha il perfetto physique du rôle per Ford, oltre che impeccabili tempi teatrali. La voce non è grandissima, ma il cantante è professionale e corretto; il personaggio esce fuori molto bene nel grande duetto con Falstaff del secondo atto, con un monologo delle corna mai sopra le righe. Convincenti anche Bardolfo e Pistola, rispettivamente Marcello Nardis e Luciano Leoni, che hanno ben caratterizzato i loro personaggi in maniera sobria, ma efficace. Una menzione particolare merita il Dr. Cajus di Cristiano Olivieri sia per la caratterizzazione scenica sia per l’accento interpretativo: nel primo atto la descrizione del furto subito dai servi di Falstaff è “detta” in modo così sincero e disperato che inserita in un contesto di commedia diviene uno dei momenti più spassosi dello spettacolo. Nel ruolo di Fenton c’è Pietro Adaìni, giovanissimo tenore leggero dal timbro gradevole, ma con una vocalità ancora da sistemare: il registro centrale e quello basso sono spesso “indietro”; bisogna lavorarci ancora un po’.
Per ultimo il quartetto femminile. Non oltre l’onestà d’insieme la prova di Rocìo Ignacio nel ruolo di Alice, scenicamente molto spigliata (forse un po’ troppo per scelta registica) e decisamente nella parte. Si è però percepito qualche problema di fonazione, dove si coglie una eccessiva copertura del suono in acuto. Brava Barbara Di Castri nel ruolo di Mrs Quickly, pur con qualche disomogeneità di timbro: anche in questo caso per scelta di regia, la sua è una Quickly un po’ troppo compassata, poco divertente e poco divertita. Funzionale e professionale la prova di Manuela Custer nel ruolo di Mrs. Meg Page. Ottima la Nannetta di Leonore Bonilla che si disimpegna con appropriatezza sia nelle schermaglie amorose con Fenton (bella messa di voce in “Anzi rinnova come fa la luna” nel primo atto), sia nell’aria della Regina delle Fate, eseguita con molta eleganza.
Allo spettacolo ha arriso un ottimo successo di pubblico, con numerose chiamate al termine e molto entusiasmo per Carlos Álvarez.
Teatro Carlo Felice – Stagione lirica 2016/2017
FALSTAFF
Commedia lirica in tre atti. Libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff Carlos Álvarez
Ford Alessandro Luongo
Fenton Pietro Adaìni
Dr. Cajus Cristiano Olivieri
Bardolfo Marcello Nardis
Pistola Luciano Leoni
Mrs Alice Ford Rocìo Ignacio
Nannetta Leonore Bonilla
Mrs Quickly Barbara Di Castri
Mrs Meg Page Manuela Custer
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Franco Sebastiani
Regia Luca Ronconi, ripresa da Marina Bianchi
Scene Tiziano Santi
Costumi Tiziano Musetti
Luci A.J. Weissbard
Allestimento Fondazione Teatro San Carlo, Fondazione Teatro Petruzzelli, Fondazione Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Genova, 29 gennaio 2017