Di carattere notoriamente schivo e scontroso, il Maestro non vi mise mai piede, benché avesse donato la cospicua somma di 10.000 lire e fosse proprietario di un palco. Ma per lo spettatore contemporaneo che si avventuri alla scoperta delle terre verdiane, assistere alla Traviata nel minuscolo Teatro di Busseto, dedicato a Giuseppe Verdi, ha tutto il sapore del pellegrinaggio, del viaggio iniziatico, dell’esperienza di vita. Superate le placide campagne emiliane mentre il meriggio infuoca l’orizzonte, si traversano le Roncole, passando innanzi alla casa dove il musicista trascorse gli anni dell’infanzia, fino alla turrita Rocca Pallavicini: pietrosa roccaforte del belcanto verdiano, in cui quasi si nasconde una sala per una manciata di eletti, appena trecento fortunati che non assistono allo spettacolo, quasi possono sfiorarlo con un dito, palpitar d’affanno con i personaggi, sobbalzare per un accordo, un concento a portata di respiro. Bene dunque ha fatto il Festival Verdi a valorizzare questa piccola Bayreuth di casa nostra: dove si respira il clima di fattiva operosità di questi luoghi, ma anche una sobria intimità, impercettibilmente scossa dall’eleganza di un’attesissima première.
È una Traviata impaginata con somma intelligenza: perché i giovanissimi, validi interpreti scaturiscono dai ranghi dei vincitori del Concorso internazionale per voci verdiane di Pesaro; perché la messinscena ha vinto la selezione dell’European Opera Directing Prize, promossa da Camerata Nuova con Opera Europa; perché, infine, è il frutto di una meritoria sinergia con le altre istituzioni musicali del territorio, grazie al coinvolgimento dell’Orchestra e del Coro del Teatro Comunale di Bologna. Non necessariamente questi titoli possono risultare concludenti: ma all’alzarsi del velario ci si rende conto che, a tacer d’altro, è la «réalité de cette histoire», come voleva Alexandre Dumas, a risultare immediata, tangibile, calzante. Nel Teatro di Busseto, infatti, si rappresenta una Traviata in cui, hic et nunc, nella scena si specchia la sala: come ai tempi di Verdi, che ebbe il coraggio di portare sulle scene un’attualità ulcerante e scandalosa.
Non tutto convince, nel progetto registico di Andrea Bernard, che con Alberto Beltrame firma un impianto scenico di asettico, chirurgico nitore: di fatto una scatola bianca in cui, con rigore da entomologo, osserva, scruta, inchioda sentimenti e azioni di oggi, anche se con le radici nel mondo di ieri. Bernard ha studiato e approfondito la materia: prevale l’intento dimostrativo e spesso eccede nel dimostrarsi ferrato, forse inattaccabile nella storia della regia d’opera. L’azione si svolge così nella casa d’aste Valéry’s, che tanto richiama la galleria Golden Lilium del Viaggio a Reims di Michieletto; e subito ritroviamo una Violetta che s’impasticca, come quella, fragilissima e indifesa, immaginata da Jean-François Sivadier per Natalie Dessay; poi comincia uno scambio di denaro che tanto ricorda i moventi evidenziati da Robert Carsen. E ancora, procedendo in ordine sparso e senza alcuna pretesa di esaustività, nel Finale II c’è una fisicità materica, con cibo e champagne impiastricciati addosso alla protagonista, che tanto sarebbe piaciuta a Rodrigo García; per approdare a un ultimo atto che garbatamente profuma di Černjakov, con tanto di futon arrotolato sul pavimento e un telefono dal filo staccato che già allora era stato angosciante, vibrante tributo alla disperata solitudine della Voix humaine. Ma nonostante questo profluvio di citazioni non dispiace, questa Traviata. Perché, appunto, è frutto di uno studio fondato sui dettagli, a cominciare da quel volume di Manon Lescaut, che campeggia accanto al podio della casa d’aste, e che fa da trait d’union con l’indimenticabile incipit della Dame aux camélias di Dumas: una dedica in un volume, «Manon à Marguerite, Humilité», che già segnava tutto un destino. Poi perché è immersa in un’atmosfera di disperazione arroventata, in un clima di sovreccitazione che forse traduce l’effetto di droghe e psicofarmaci, ma che sicuramente risulta perfetto termometro sensibile di una vicenda sempre sopra le righe: fino al tentativo di suicidio di Violetta quando, costretta al «sagrifizio», infila la testa in una busta di plastica. E infine perché Bernard segue genealogie, ramificazioni, riferimenti: e se comincia con il volume dedicato a Manon, poi racconta la storia di una Violetta ormai pronta alla metamorfosi in Lulu, ossessionata da una gigantografia che la ritrae irresistibile mantide al tempo della débauche, e che alla fine diventerà «l’immagine de’ miei passati giorni». E tutto questo con un empito drammatico, una teatralità dirompente che di rado accompagna le crinoline del melodramma verdiano.
Per questa via La traviata diventa inesorabile via crucis, scivoloso precipizio verso la perdizione: così la inquadra la fervida bacchetta di Sebastiano Rolli, che non soltanto ritrova indiscutibile consentaneità con il repertorio di primo Ottocento, ma che soprattutto si avvale della calorosa, convinta e appassionata complicità dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, mai incline alla routine e anzi protagonista di una prova particolarmente felice, vivida, entusiasta. Ne beneficia soprattutto la scena della festa chez Flora, in cui si dimenticano facilmente le coreografie di Marta Negrini, funzionali a mettere in rilievo gli appariscenti costumi fiorati di Elena Beccaro, grazie a un’esemplare gestione dei tempi, sempre incalzante, ficcante, incisiva: e quando attacca il grande Concertato finale, prefigurando la catastrofe ormai imminente, il direttore ritrova e rinnova un respiro panico, disteso, perfettamente calibrato sulle voci, pronto a sciogliersi nel doloroso commiato. Con l’adozione dell’edizione critica di Fabrizio Della Seta, utilizzata per l’occasione, si segnala la decisione di riaprire tutti i tagli, a cominciare dai ‘da capo’: scelta ardua, che spesso mette in difficoltà soprattutto gli interpreti maschili, ma che restituisce rigore filologico e ampiezza di prospettive all’esecuzione della partitura.
È singolare quanto – in un contesto così piccolo, che esalta anche un batter di ciglia – La traviata diventi dramma dei singoli, ma anche azione corale, destinata ad amplificare l’isolamento di chi si sente «sola, abbandonata» in una metropoli come poche altre brulicante di vita. Ammirevole è la tenuta di un coro – sempre del Comunale di Bologna, preparato da Andrea Faidutti – che mai perde smalto e sempre ricerca una tinta omogenea compatta, ma che riesce a salvaguardare le peculiarità di ciascuno dei suoi ventiquattro componenti, alcuni dei quali impegnati in ruoli di fianco: l’ottimo Giuseppe di Ugo Rosati, titubante consigliere di Alfredo affetto da inarrestabile tic nervoso; l’accorto Domestico di Flora di Sandro Pucci e il corretto Commissionario di Raffaele Costantini. Un’intrigante galleria di cammei viene tratteggiata da un’attendibile schiera di comprimari, capeggiati dalla pimpante, peperina Flora Bervoix di Marta Leung e dallo scatenato Gastone di Pasquale Scircoli, che nel breve volgere di poche battute riesce a tratteggiare un personaggio a tutto tondo; ma meritano almeno una menzione anche l’inflessibile, autoritaria Annina di Luisa Tambaro, l’austero Barone Douphol di Carlo Checchi come il granitico, imponente Marchese d’Obigny di Claudio Levantino, fino all’umanissimo, sensibile Grenvil di Gerard Farreras Gonzàles.
Appena meno felici sono le note sul fronte dei protagonisti maschili, visto che il papà Germont di Marcello Rosiello, cui pure non fa difetto un nobile imposto e un fraseggio sempre ampio e accurato, da un lato soffre di una granulosità timbrica, che nuoce alla linea di canto; e dall’altro presto accusa una fatica che si materializza sin dalla grande Aria del secondo atto. In crescendo è invece la prova di Alessandro Viola, che non è difficile preconizzare diventerà un ottimo Alfredo. In atto può contare sull’empito, su una contagiosa baldanza giovanile che si fonda su un’emissione fluida, scorrevole, senza intoppi, appena frustrata, in questa circostanza, da un’eccessiva attenzione ai dettagli registici, che fin troppo lo impegnano durante la cabaletta del secondo atto. Misura, contegno ed eleganza si aggiungeranno presto, sicuramente, alla connotazione di un personaggio che non spiace vedere così irruente e impulsivo, ma che sin d’ora cesella con grande gusto il Duetto dell’ultimo atto, felicemente declinato a fior di labbra. E invece non sembra il caso di lesinare elogi per la maiuscola Violetta di Isabella Lee. Forse è ancora presto per dire che è nata una stella – anche se non la pensa così il pubblico di Busseto, che al termine della serata la sommerge con un’affettuosa, entusiastica accoglienza – ma certo è difficile trovare un’interprete tanto giovane, ma già così splendidamente sicura in un ruolo così impervio. Forse questo è, al tempo stesso, il maggior pregio e il limite della sua cortigiana; tanto è sicura di un dovizioso, corposo materiale vocale, tanto perfetta è la sua amministrazione, sempre sul fiato, ammirevole nella coloratura, luminosamente tranchant nel declamato più drammatico: le manca forse un briciolo di fragilità, di sommessa premonizione del dolore, di quel senso di morte che sin dall’inizio aleggia nella voce delle grandissime interpreti del ruolo. Sicura nei centri, svettante negli acuti, sorprende per il perfetto dosaggio delle dinamiche e dei colori: e dalla commossa misura di un memorabile «Dite alla giovine» in pianissimo passa poi all’energia di un «Amami, Alfredo» con cui squarcia la quarta parete e per sempre annienta il futuro di chi la circonda. Fino a un terzo atto in cui non sai se apprezzare maggiormente la perfetta lettura della lettera o un «Addio del passato» che diventa lenta, implacabile cerimonia funebre: di una Violetta che seduce come Lulu ma muore come Cio-Cio-San, sotto il gran ponte del cielo di Busseto, luminoso di stelle e di emozioni.
Teatro Giuseppe Verdi – Festival Verdi 2017
LA TRAVIATA
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Edizione critica a cura di Fabrizio Della Seta
The University of Chicago Press, Chicago, e Casa Ricordi, Milano
Violetta Valéry Isabella Lee
Flora Bervoix Marta Leung
Annina Luisa Tambaro
Alfredo Germont Alessandro Viola
Giorgio Germont Marcello Rosiello
Gastone, visconte di Letorières Pasquale Scircoli
Barone Douphol Carlo Checchi
Marchese d’Obigny Claudio Levantino
Dottor Grenvil Gerard Farreras Gonzàles
Giuseppe Ugo Rosati
Domestico di Flora Sandro Pucci
Commissionario Raffaele Costantini
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Sebastiano Rolli
Maestro del coro Andrea Faidutti
Regia Andrea Bernard
Scene Andrea Bernard e Alberto Beltrame
Costumi Elena Beccaro
Luci Adrian Fago
Movimenti coreografici Marta Negrini
Nuovo allestimento in coproduzione il Teatro Comunale di Bologna e
l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento
Busseto, 29 settembre 2017