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Piacenza, Teatro Municipale – Un ballo in maschera

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Dopo ben trentatrè anni di assenza dalle scene piacentine, il Teatro Municipale ha fatto il tutto esaurito con la riproposta di Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, scegliendo per l’occasione uno dei più grandi baritoni italiani prestato eccezionalmente alla regia d’opera: Leo Nucci.

La regia di Nucci è un tuffo nella tradizione, ma è un tuffo fatto con grande consapevolezza rispetto alla materia trattata e, cosa che oggigiorno non deve mai darsi per scontata, totalmente fedele alle indicazioni del libretto. La produzione – vagamente ispirata allo storico spettacolo del Met firmato da Piero Faggioni, che nel 1991 vedeva lo stesso Nucci nella parte di Renato – vanta la collaborazione di Carlo Centolavigna alle scene, Artemio Cabassi ai costumi e Claudio Schmid alle luci, un team tecnico capace di ricreare un set perfettamente calato nell’epoca originale che fa da sfondo al dramma, quella di passaggio dal ‘600 al ‘700. I costumi dalle stoffe variopinte e cangianti, che procurano un applauso a scena aperta durante la scena del ballo, sono realizzati con un’esemplare dovizia di particolari. Le luci e le proiezioni ricreano effetti suggestivi: la luna che si staglia sul fondale nell’”orrido campo” o il fascio di luce che illumina Riccardo al momento della sua aria, stemperandosi sul velario calato in proscenio, sono tocchi che rivelano tutta la classe del mestiere. Nucci accompagna il pubblico nell’America del periodo coloniale, portando senza alcun timore sul palco persone di colore nel ruolo di schiavi e di servi domestici, e risolve – laddove non si tratti di attori, come nel caso del coro femminile nella scena della maga – scurendo il volto con apposite tinture; tutto ciò in barba al politically correct imperante che già da diversi anni vieta negli Stati Uniti (ma abbiamo anche esempi nostrani, vedasi l’allestimento di Norma al Teatro La Fenice di Venezia) le blackfaces sulla scena. Il risultato è uno spettacolo lineare e comprensibile, ma anche visivamente accattivante, che il pubblico di Piacenza ha festeggiato con applausi davvero calorosi. Ciononostante, per quanto mi riguarda, l’allestimento firmato da Nucci è il solo valido motivo per gioire di uno spettacolo che mi è parso nel complesso insoddisfacente.

È un vero peccato che Donato Renzetti diriga una partitura con tali possibilità espressive dando come l’impressione di mirare prevalentemente a sonorità grandiose e ipertrofiche, visto che, quando vuole – come evidenziano alcuni incisi durante l’aria di Amelia e quella di Renato sul principio del terzo atto – si dimostra abilissimo nell’accompagnare il canto suggerendo dinamiche ricercate e coloriti sfumati. Purtroppo però, per la maggior parte del tempo, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini suona così forte da mettere alle corde tutti i membri del cast, i quali, chi più chi meno, si vedono costretti a gonfiare oltremisura l’emissione nel tentativo di “passare” la buca. Venticinque anni sono una giovane età, forse troppo giovane, per presentarsi all’appuntamento con il ruolo di Riccardo. E infatti Vincenzo Costanzo, a soli quattro anni dal proprio debutto operistico, non riesce a risolvere del tutto le difficoltà, vocali e interpretative, insite in una parte tanto complessa e sfaccettata. Ciò detto, non posso negare che Costanzo abbia dalla sua un gran bel timbro, nel quale è già possibile intraudire alcune screziature brunite che nel tempo potrebbero diventare interessanti. La linea di canto è garbata e la dizione abbastanza chiara. Il registro acuto è sicuro, l’emissione sufficientemente compatta e, all’occorrenza, ben legata. Piccolissime defaillances occorse all’intonazione durante l’ultimo atto (con ogni probabilità causate dalla stanchezza) non hanno pregiudicato la buona riuscita dell’aria e della scena finale. Tuttavia, l’autorevolezza, il senso di lealtà e il conseguente dramma interiore che dilania il personaggio, così come il sarcasmo che dovrebbe caratterizzare la scena nell’antro di Ulrica, sono aspetti che il tenore partenopeo tocca solo fuggevolmente, concentrato com’è sull’esecuzione delle note e sulla volontà di “far bene”. Oltretutto, l’avergli accostato una partner femminile dotata di una vocalità più ampia e matura, ha causato qualche squilibrio sonoro nel duettone d’amore. Una partner che vede in Susanna Branchini un’Amelia dalla voce potente in acuto, ma piuttosto deludente per quanto concerne gli altri registri, troppo spesso compromessi da suoni poco gradevoli nel medium della voce e dall’effetto plateale di certe note gravi, dovuto ad un uso per così dire “libertino” dei suoni di petto. L’ingresso di Amelia nella scena di Ulrica mostra disuguaglianze nel timbro come nell’emissione (riuscirò mai a sentire, nel terzetto, la discesa al si naturale dell’”infiammato palpito” cantata come si deve?), per poi assestarsi nel prosieguo della recita. In particolare, la prima aria risulta efficace nelle intenzioni, mentre “Morrò, ma prima in grazia”, pur interpretata con la giusta intensità, paga lo scotto di una cadenza finale vocalmente disomogenea. Molto meglio la scena del ballo, quando la Branchini, per rendere al meglio l’idea di un sussurrato e febbrile scambio di battute con il suo amato, schiarisce il colore ed alleggerisce l’emissione facendo emergere quello che, con ogni probabilità, è il suo vero timbro.

Nei panni di Renato, il baritono Mansoo Kim si allinea su una routine che pur essendo corretta dal punto di vista vocale, entusiasma poco per quanto attiene a quello interpretativo e attoriale: le note sono tutte presenti all’appello, ma invano si cercherebbero in questa prova intuizioni felici nel fraseggio, come pure tracce di una reale personalità. Natalia Labourdette, impersonando il paggio Oscar, avrebbe le carte in regola per schizzare a tutto tondo il personaggio, situazione che però non si verifica a causa di una spiacevole tendenza del soprano a “tirare indietro”, come si dice in gergo; non si tratta di un ritardo clamoroso, ma quello che stupisce è che tale ritardo si sia evidenziato costantemente in entrambe le arie, quasi come se la cantante e il direttore non si fossero perfettamente intesi sul tempo. A parte questo inconveniente, devo riconoscere alla Labourdette una voce ben posizionata che le ha permesso di svettare, com’è giusto che sia, nei concertati (molto bello il do acuto che corona “È scherzo od è follia”). Ekaterina Chekmareva non è certamente un contralto verdiano, e perciò nella grave e gravosa parte di Ulrica cerca di riempire come può l’impressionante estensione. Ho comunque apprezzato sia lo sforzo profuso dal mezzosoprano per venire a capo della scrittura vocale, sia l’interpretazione asciutta e scevra da cedimenti caricaturali.

Tra le parti di fianco segnalo il Samuel composto e misurato di Mariano Buccino e il primo giudice di Raffaele Feo, personaggio che, per una volta, pare non essere affetto dalla solita vocetta odiosamente nasale. Positiva la prestazione del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati. Per dovere di cronaca, segnalo che, al termine della recita, tutti gli artisti e il direttore sono stati festeggiati con numerose e ripetute ovazioni.

Teatro Municipale – Stagione lirica 2016/2017
UN BALLO IN MASCHERA
Melodramma in tre atti su libretto di Antonio Somma
Musica di Giuseppe Verdi

Riccardo Vincenzo Costanzo
Renato Mansoo Kim
Amelia Susanna Branchini
Ulrica Ekaterina Chekmareva
Oscar Natalia Labourdette
Silvano Giovani Tiralongo
Samuel Mariano Buccino
Tom Cristian Saitta
Un giudice/Un servo di Amelia Raffaele Feo

Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Leo Nucci
Scebe Carlo Centolavigna
Costumi Artemio Cabassi
Luci Claudio Schmid
Nuovo allestimento
Coproduzione Fondazione Teatri di Piacenza, Teatro Alighieri di Ravenna, Teatro Comunale di Ferrara
Piacenza, 9 ottobre 2016

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