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Parigi, Amphithéâtre Bastille – Owen Wingrave

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Era un bravo ragazzo, Owen Wingrave? Correva l’anno 1969, mentre la guerra insanguinava il Vietnam e turbava gli animi del mondo intero, quando Benjamin Britten riprende una novella tardo-ottocentesca di Henry James, Owen Wingrave, per elevare l’ennesimo grido di dolore contro la guerra e la violenza. Ultimo rampollo di una famiglia di soldati, sempre pronti a sacrificare la vita sul campo di battaglia per difendere la bandiera del Regno Unito, Owen decide infatti di abbandonare l’Accademia dove studia strategia militare per difendere un ideale più alto, quello della pace: perché tutti gli sembrano violenti, Annibale e Cesare, Marlborough e Napoleone, e perché lui si sente «Strong against war, unwilling to prepare my mind and body for destruction», forte contro la guerra, contrario a preparare la mente e il corpo per la distruzione. Affronterà l’aperta ostilità della famiglia, il disprezzo della fidanzata; verrà diseredato e scacciato dall’avito maniero di Paramore, lì dove le bandiere garriscono al vento; e infine sarà costretto a dimostrare il proprio coraggio rimanendo per una notte nella camera ‘maledetta’: lì dove venne trovato esanime il corpo del quinto Wingrave, ucciso dal padre per essersi rifiutato di affrontare il nemico; lì dove anche Owen deciderà di darsi la morte, in un ultimo gesto di rivolta.

Con Owen Wingrave Britten ritorna alle suggestioni oltremondane di James, quindici anni dopo il suo Turn of the Screw, componendo un’opera da camera che non si rivolge più a una ristretta élite di melomani, bensì al più vasto uditorio della televisione, grazie agli sforzi che la BBC dedica alla creazione artistica contemporanea. Ed è un piccolo, grande capolavoro anche la versione destinata alle scene (al debutto al Covent Garden di Londra il 10 maggio del 1973), ripresa dagli allievi dell’Académie de l’Opéra de Paris nella sede più raccolta, ma estremamente ospitale dell’Amphithéâtre dell’Opéra Bastille, in un’edizione salutata dal pubblico con un misto di emozione e di entusiasmo, palpabili alla fine dell’esecuzione. Una produzione, peraltro, che – non fosse per la giovane età di tutti gli interpreti, in scena ma anche dietro le quinte – nulla aveva da invidiare a quelle più blasonate proposte dallo stesso teatro nella sua programmazione ufficiale, e anzi con un fervore decisamente contagioso.

Per cominciare per la fedeltà al rigore e alle motivazioni del dettato di Britten, che ancora una volta meritano la più completa e incondizionata adesione. Perché se il musicista del Suffolk già dagli anni della Seconda Guerra mondiale si sottrae alle battaglie fratricide che insanguinano il Vecchio Continente, espatriando come obiettore di coscienza nel Nuovo Mondo; e se l’intera sua opera trova uno dei suoi vertici in quel War Requiem composto per la riapertura della Cattedrale di Coventry, ridotta in macerie durante la Guerra; e allora riprendere, allestire Owen Wingrave significa confrontarsi con il suo messaggio pacifista, con il desiderio di scagionare e comprendere le presunte colpe di chi è innocente, con un dibattito rovente già all’epoca, ma che non sembra aver perduto nulla della sua forza eversiva ancora oggi, quarant’anni più tardi.

Il regista irlandese Tom Creed ha cominciato a lavorare esattamente un anno or sono alla nuova produzione dell’opera: nel frattempo ci sono stati gli attentati del Bataclan, la Brexit, adesso anche l’elezione di Donald Trump. Per questo, d’intesa con la scenografa Aedin Cosgrove, invece di raccontare l’old England vittoriana e romanzesca alla Jane Austen, sceglie di rappresentare l’opera davanti a un muro di mattoni: come ce ne sono tanti, nelle case di Londra e provincia; come ancora se ne vogliono erigere altri, in Europa e altrove. Su questo muro, funzionale alle proiezioni video di Jules van Hulst e Wieger Steenhuis, dapprima campeggia la bandiera britannica; ma poi si volatilizza, si riduce a un brandello bianco rosso e blu, diventa porta di accesso a una stanza senza via d’uscita. Certo l’azione viene circoscritta, seguendo l’architettura semicircolare dell’anfiteatro, in quell’eterno salotto dove si beve sherry mentre si consumano i destini del mondo; ma poi si allarga, quando l’intera cavea serve per amplificare le rampogne dei Wingrave e dei Julian, lì dove si salda la perfidia della solidarietà femminile («How dare you!») in un cerchio familiare che stritola e umilia Owen e la sua mancanza di «scruples» in un agghiacciante crescendo d’impronta rossiniana. Suggestiva è anche l’idea che – contrariamente a quanto previsto dal libretto – manchi la galleria con i ritratti dei Wingrave: qui opportunamente sostituiti da animali impagliati, inquietanti rapaci dalle ali spiegate le cui ombre si stagliano minacciose sull’ambiente circostante. Esemplare, infine, è la costruzione a specchio dei due atti: se all’inizio del primo Owen, costretto a indossare la divisa militare, se ne disfa per indossare gli abiti di ogni giorno, al contrario nel secondo è l’anziano generale, sir Philip Wingrave, a dismettere i più comodi vestiti quotidiani per indossare l’alta uniforme, nel giorno in cui, dopo un breve, burrascoso colloquio, deciderà di diseredare il nipote. Come da tradizione, peraltro (i due ruoli furono entrambi scritti per Peter Pears, compagno nella vita e nell’arte di Britten), il ruolo di sir Philip viene interpretato dallo stesso tenore che, durante questa meticolosa vestizione, funge anche da Narratore: per evocare la triste ballata di un ragazzo («There was a boy, a Wingrave born») che non era nato per uccidere il nemico.

È un lavoro a tutto campo, dunque, quello condotto con le giovani leve dell’Accademia dell’Opéra di Parigi, particolarmente impegnativo per la compagine orchestrale, che assembla gli allievi di questi corsi di formazione di eccellenza, per la sezione degli archi, con alcuni membri dell’Orchestre-Atelier Ostinato: tutti sotto la guida di Stephen Higgins, che si rivela particolarmente attento a restituire la cifra di una partitura dal fascino arcano. Come per l’altra opera ispirata a James, infatti, Britten fa affidamento da una parte a una serie di ‘voci di dentro’ – la marcia militare che risuona fin dalle prime battute – e dall’altra a ricercati impasti timbrici, destinati a isolare la personalità del protagonista. Percussioni, arpa e pianoforte, ad esempio, accompagnano la pagina più struggente dell’opera, il grande appello pacifista di Owen, nel secondo atto. Pur se in posizione defilata, su uno spicchio laterale della cavea dell’anfiteatro, Higgins gestisce con grande disinvoltura e facilità gli equilibri sonori con i cantanti, dei quali mette in luce un pregevole lavoro di scavo sulla parola, lo stretto rapporto tra una prosodia sempre intelligibile e limpida e le atmosfere rarefatte e sospese, in cui è immerso il dramma.

E la medesima partecipazione è dato riscontrare nel manipolo di giovani artisti, che hanno strenuamente difeso ruoli in cui si ritrovano perfettamente calati. Sin dalla prima scena, infatti, è possibile apprezzare la grana pastosa, il manto vellutato e rassicurante di Mikhail Timošenko, nei panni dell’istruttore dell’Accademia militare, Spencer Coyle, mentre l’allievo Lechmere mette in risalto le belle potenzialità, lo squillo e la morbidezza d’emissione del tenore Jean-François Marras. Di pregio il terzetto femminile di casa Wingrave, a cominciare dall’inflessibile, severa Miss Wingrave di Élisabeth Moussous, certo in uno dei ruoli più austeri composti dal musicista inglese, ma che non perde occasione per assecondare la bellezza di un timbro scuro e brunito, da valorizzare anche in altro repertorio. Accanto alla battagliera, spietata Kate di Farrah El Dibany, si ritaglia un cammeo incandescente la sopranilità appuntita e giustamente acuminata di Laure Poissonnier, eccellente Miss Julian. Da notare come la fusione di queste voci, nel terzetto del primo atto, restituisca appieno – come in Peter Grimes – quel misto di nostalgia e smarrimento, di rimpianto del passato e di trasognata melanconia del presente, che accomuna le istanze dei tre ruoli femminili. Ma la migliore in campo è senza dubbio alcuno Sofija Petrović, materna Mrs. Coyle, per la luminosa bellezza del timbro, la solidità dell’impostazione e la proiezione di uno strumento screziato, vivido di sfumature. Juan de Dios Mateos Segura si disimpegna efficacemente nel ruolo di sir Philip, ma soprattutto restituisce il magico stupore della ballata intonata dal Narratore, fosca premonizione della tragedia che incombe.

E poi c’è Owen. Affidato qui al polacco Piotr Kumon, che ha un solo punto debole, una pronuncia ancora perfettibile ma che per ora mostra spesso la corda. Non fosse per quest’unico bemolle, possiede il physique du rôle, una baldanza giovanile che magnificamente sostiene non solo un credo politico, ma una filosofia di vita. Poggia, tutto questo, su un’emissione infallibile, sulla sicurezza di tutta la gamma di una seducente voce baritonale, sontuosa e ricca di armonici, strumento flessibile per la grande aria «In peace I have found my image», da cui avvia un finale da brivido, semplicemente commovente. Owen gli appartiene di diritto, Billy Budd lo attende all’orizzonte in un prossimo futuro. Perché Owen è un bravo ragazzo. E quando Kate lo rinchiude nella camera maledetta, per costringerlo ad affrontare i fantasmi di famiglia, non è solo lui a dover fare i conti con il passato, ma un’intera generazione chiamata a confrontarsi con scelte sbagliate ed errori incancellabili: la nostra, come Britten aveva precocemente, dolorosamente compreso.

Amphithéâtre Bastille – Stagione lirica 2016-2017
OWEN WINGRAVE
Opera in due atti di Myfanwy Piper dall’omonima novella di Henry James, op. 85
Musica di Benjamin Britten

Owen Wingrave Piotr Kumon
Spencer Coyle Mikhail Timošenko
Lechmere Jean-François Marras
Miss Wingrave Élisabeth Moussous
Mrs Coyle Sofija Petrović
Mrs Julian Laure Poissonnier
Kate Farrah El Dibany
General Sir Philip Wingrave Juan de Dios Mateos Segura
Narrator Juan de Dios Mateos Segura

Musicisti dell’Académie de l’Opéra National de Paris
Orchestre-Atelier Ostinato
Direttore Stephen Higgins
Regia Tom Creed
Scene e luci Aedin Cosgrove
Costumi Catherine Fay
Drammaturgia Eoghan Carrick
Video Jules van Hulst, Wieger Steenhuis
Parigi, 24 novembre 2016

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